Italici: chi sono e quanti Italica Global Community

I residenti in Italia sono quasi 60 milioni e gli italiani fuori d’Italia circa 6 (milioni). Per l’esattezza 5.806.000, secondo quanto comunicato dal Ministro dell’interno al 31 dicembre 2019. Cifre ufficiali, ne abbiamo già parlato in questo stesso blog, vedi: italiani all’estero, quanti siamo? Ma quanti sono invece i discendenti di quegli italiani che lasciarono l’Italia dal 1860 e che non sono più italiani ma che sono in qualche modo a livelli diversi legati al loro paese d’origine?

Rispondiamo a questa domanda riportando il testo di quanto comunicato da Piero Bassetti  nel corso di una conferenza stampa che ha avuto luogo a Roma il 22 settembre 2021, alla sede della Associazione stampa estera. Conferenza stampa per annunciare la nascita della Italica Global Community.

 CONFERENZA STAMPA. Intervento di Piero Bassetti, Presidente della Associazione Svegliamoci Italici.

Piero Bassetti. Foto ©spyweb.it

“Innanzitutto un grazie all’Associazione Stampa Estera che si è espressa prima e che ci ospita. Un grazie cordiale perché sappiamo tutti l’importanza dell’Associazione e della Stampa Estera, tanto più per un oggetto come quello che celebriamo stamattina.

Poi un ringraziamento a chi presiede,  e vado subito, con un tentativo di estrema sintesi, al mio compito, che è quello di dire cos’è l’Italica global community. Io la definirei un progetto politico. E’ il progetto di fare un soggetto politico, non istituzionale ma politico, degli oltre 250 milioni di italici nel mondo che come tutti voi immaginate o sapete, anche senza avere una goccia di sangue italiano sono attratti dall’Italia, ne hanno abbracciato i valori, gli stili di vita e i modelli di quella “Italian way of life” diffuso nei cinque continenti ibridandoli con altre culture.

Costoro ci sono, non sempre sanno di esistere come potenziale comunità, non hanno consapevolezza di soggettività politica, non hanno organizzazioni culturali. Non sono le diverse aggregazioni o lobbies degli italiani all’estero, con le quali intrattengono nel migliore dei casi quando esistono, i più cordiali rapporti così come è nostra intenzione di mantenere i più cordiali e integrati rapporti con la dimensione nazionale italiana. Possono però, gli italici, e devono diventare un potenziale soggetto politico glocale.

Gli Stati membri dell’ONU come sono rappresentati nel logo. Foto © UNRIC.org

Questo è il punto chiave. Il mondo oggi sta diventando glocale e non sono più i 197 Stati nazionali iscritti all’Onu che lo interpretano e lo condizionano. Voi avete la sensibilità dei giornalisti (Kabul docet), a Kabul ci siamo accorti tutti che il mondo sta per essere organizzato politicamente in modo radicalmente diverso e come? Non punta alla globalità, ma punta a questa dimensione culturale complessa, ma rilevantissima che è l’integrazione avvenuta ormai nel mondo grazie ai media, tra ciò che è globale e ciò che è locale. Qualunque punto partecipa della dimensione globale, qualunque entità globale è intercettata e intercetta le dimensioni locali. Questo secondo me, secondo noi, avrà un impatto politico sulla organizzazione istituzionale che è alla base culturale del disegno e dell’appello che appunto è stato a suo tempo sviluppato nel libro.

Il mondo oggi è glocale, quindi non è più quello degli soli Stati nazionali e non è ancora quello che anche nell’ONU si intravede, dell’unione delle civilizzazioni. Circa due anni fa a Washington abbiamo fatto un convegno che ha avuto l’avvallo anche esplicito del nostro presidente della Repubblica, che ci segue con simpatia, in cui si evocava in ambiente come quello dell’Onu la necessità di cominciare a pensare come il mondo si riorganizzerà di fronte alle sfide che la tecnologia ha posto in modo irreversibile.

Il dibattito di questi giorni tra americani e francesi sulla dimensione indoeuropea, che apparentemente si sviluppa sulla tecnologia dei sommergibili, è il dibattito tra grandi dimensioni politiche quella degli Stati Uniti, quella ex Commonwealth, quella ex colonia francese (i francesi hanno 2 milioni di persone nel mondo indo asiatico) e quello di una dimensione emergente che non è solo la Cina, ma la dimensione della soggettività politica dell’asse che da 3000 anni invece è quiescente, l’abbiamo risvegliata noi e oggi è del tutto sveglia.

Tutti i Paesi del mondo invasi (almeno una volta) dalla Francia. Foto focus.it

Questo è il retroterra politico culturale nel quale noi ci vogliamo muovere. Noi vogliamo che la civilizzazione italica entri nella storia del mondo e ci entri con tutti i suoi valori e con tutto il suo potenziale. In questo senso non abbiamo nessun falso pudore (io lo farò domani all’università della Tuscia) di richiamarci e riportarci alla tradizione politica della storia romana che è al fondo della nostra dimensione italica.

Noi vogliamo un Mediterraneo che sia un Mare Nostrum, vogliamo un’Europa che non sia la somma di 27 Stati nazionali espressi dagli accordi di Vestfalia, ma che sia l’Europa di integrazione delle grandi civilizzazioni presente in Europa. E anche qui c’è spazio per lavorare, perché sarà interessante vedere se vogliamo andare assieme alle altre civiltà italiche, che sono quelle di tradizione latina, o invece divisi tra quelle che sono state di dimensione nazionale.

La Pace di Vestfalia illustrata da Bartholomeus van der Helst (1613-1670), in Peace of Münster (1648) tela esposto a Rijksmuseum di Amsterdam.

Noi vogliamo che la civilizzazione italica entri nella storia globale già cominciata e vogliamo cominciare a predisporre le condizioni per la nascita di questa soggettività politica. La prima condizione è il risveglio, la presa di coscienza della potenzialità del disegno e il libro, che è del 2016, puntava a creare le premesse per un risveglio. Da allora abbiamo fatto molta strada, soprattutto sul piano culturale, per mettere a punto il pensiero ispiratore di questa esigenza. Oggi cominciamo col tema dell’annuncio, cioè che è il vostro destino professionale e proseguiremo, nei limiti delle possibilità, con i discorsi organizzativi.

Il nostro territorio è la rete, cioè noi non abbiamo preoccupazioni di carattere territoriale di nessun tipo, la nostra integrazione è culturale, la rappresentanza politica è offerta agli Stati nazionali che vogliano in un certo senso approfittarne: il primo, naturalmente, la Repubblica italiana. Noi siamo assolutamente convinti che nessuno più della Repubblica italiana è in condizione di interpretare questo disegno e di collocarlo nella storia. Quindi la consapevolezza è questa, l’ambizione è elevata, la pochezza dei nostri mezzi e strumenti di partenza è altrettanto innegabile, però tutte le rivoluzioni storiche sono cominciate dal poco e noi non siamo niente, siamo al poco, ma vogliamo arrivare al molto. Grazie.”

Gli italici sono quindi circa duecento cinquanta milioni, vi sembrano tanti ?Facciamo un po’ di conti : 60 milioni nella penisola italiana, 6 milioni di italiani all’estero iscritti all’AIRE. In Brasile pare che la presenza di discendenti di immigrati italiani sia del 15 per cento, su una popolazione di 220 milioni. Quasi 35 milioni.


Italo-americani, il 14% vive nel Nord-Est, primato nel Rhode Island. Foto © Gente d’Italia.

Negli Stati Uniti gli italici sarebbero 20 milioni secondo la NIAF(National  Italian American Foundation). In Argentina sono oltre un terzo della intera popolazione.

Tanti sono pure nelle altre repubbliche  americane di lingua spagnola.

In Francia secondo indagini di istituti di ricerca sarebbero il 7 per cento della intera popolazione, oltre 4 milioni.

Il fenomeno “Big Mamma”. Un successo incredibile. Prossima apertura nel Principato.

Tigrane Seydoux, insieme a Victor Lugger, è il fondatore del gruppo di ristorazione francese Big Mamma, che in 7 anni ha aperto 17 ristoranti e impiega al momento circa 1500 dipendenti, quasi tutti italiani.

Tigrane Seydoux, foto © Babello.

Il gruppo è presente in quattro Stati, è una delle realtà più significative  nell’ambito della ristorazione tanto da diventare un caso di studio in tutte le scuole di marketing. La base di questo successo senza precedenti è la filosofia e l’accoglienza italiane.Infatti, naturalmente già dal nome c’è una evidente  fonte di ispirazione italica. Addirittura italo-americana.

I due giovani sono stati molto innovativi anche nel modo di pagare. Partendo dall’idea – giustissima – che il momento del pagamento è quasi per tutti un momento che rovina un po’ la magia del pasto, Victor Lugger ha “inventato” il pagamento con il codice QR. Per l’operazione, i due si sono associati con la donna d’affari americana Christine de Wendel, ex dirigente delle popolari piattaforme Zalando e Mano Mano. Insieme, i tre hanno ottenuto dalle banche un finanziamento di 20 milioni di dollari, con i quali hanno dato inizio all’interessante iniziativa.

Tigrane Seydoux, Christine de Wendel e Victor Lugger. Foto © Sunday.

Tigrane Seydoux ha rilasciato un’intervista a Food & Sens, ribadendo bene questo concetto. La riportiamo integralmente e ringraziamo la testata per la gentile concessione:

Ricordiamo la genesi di Big Mamma?

Potrei parlarne per ore, perché ovviamente è la mia creatura ed è stata la mia vita negli ultimi sette anni. Con Victor Lugger, mio amico e socio abbiamo avviato quest’avventura. Abbiamo creato il gruppo a 26 anni. La genesi di Big Mamma deriva dalla nostra passione per l’Italia. Io personalmente sento la forte l’influenza italiana. Amo il Mediterraneo e la sua cultura. Victor invece è un fan del cibo italiano. È cresciuto con i genitori che hanno fatto molti viaggi in Italia.

Come avete realizzato il progetto?

Ci siamo specializzati alla HEC Business School di Parigi. Quindi non nasciamo come ristoratori. Per quanto mi riguarda, però, ho sempre voluto lavorare in hotel e ristoranti, perché mi piace creare luoghi vitali, rendere felici le altre persone.

Big Mamma a Parigi, nel 13° arrondissement.

Qual è la vostra filosofia?

Nel 2013, il progetto Big Mamma è nato dal desiderio di offrire qualcosa di buono, economico e servito con il sorriso. La nostra idea di partenza si basava sulla constatazione che Parigi aveva già molti ristoranti italiani. Penso che all’epoca fosse la seconda città in Europa per questo genere di locali. Ma non avevano la stessa qualità / prezzo e non regalavano l’esperienza che invece contraddistingue le trattorie popolari di Puglia e in Toscana. Noi volevamo creare una combinazione ottimale di prodotti di qualità a prezzi accessibili in un ambiente accogliente. Per un anno e mezzo, abbiamo visitato tutte le regioni d’Italia incontrando circa 200 piccoli produttori.

Quale modello avete scelto?

Abbiamo basato l’intera avventura di Big Mamma su due punti fondamentali: i prodotti e le persone. Quattro valori ci hanno guidato in questo percorso: eccellenza, meritocrazia, autenticità e imprenditorialità. Il punto di partenza era quindi capire come reperire prodotti di qualità. Lo abbiamo fatto attraverso un sistema logistico con base a Milano per il nord Italia e a Napoli per il sud. In questo modo siamo riusciti ad ammortizzare i costi di trasporto e consentire il miglior rapporto qualità/prezzo possibile. Il secondo fattore, estremamente importante, è lo staff.

Noi di Big Mamma la chiamiamo famiglia. Dei nostri 1.500 dipendenti, oltre l’80% sono italiani. Questa idea è nata dal primo ristorante che abbiamo avviato a Gordes nel Luberon, prima ancora di aprire ristoranti sotto l’insegna Big Mamma. Ci siamo resi conto che l’anima e l’energia che sprigiona una squadra sono fondamentali. È incredibile la forza che la coesione, la cultura aziendale e la solidarietà di una squadra possono avere per la performance di un ristorante. Quindi abbiamo investito molto tempo per costruire questa comunità.

Quanti ristoranti ha oggi il gruppo?

Il primo è stato aperto a Parigi nell’aprile 2015. E oggi il gruppo conta 17 trattorie e 15 cucine dedicate esclusivamente al delivery e alla ristorazione italiana con il nostro concept Napoli Gang. 11 in Francia, di cui 8 a Parigi, uno a Lille, uno a Lione e uno a Bordeaux. 3 ristoranti a Londra, l’ultimo dei quali ha aperto quest’estate a Covent Garden e due a Madrid. Tra le 17 trattorie francesi, in particolare, abbiamo aperto La Felicità nel 13° arrondissement di Parigi, un “mercato alimentare” situato all’interno dell’incubatrice Station F. È il ristorante più grande d’Europa, grazie ai suoi 5.000 mq e ai suoi 1.500 posti a sedere. L’anno prossimo apriremo altri tre ristoranti a Marsiglia, Monaco e Berlino. Per non parlare del futuro ristorante a Monaco.

Qual è stato il tuo ruolo iniziale e attuale?

Sono co-fondatore e co-proprietario. Ho sempre avuto grande cura delle risorse umane e della parte operativa. E Victor ha gestito la parte in cucina. Ma il nostro ruolo si è completamente evoluto. Perché oggi gestiamo un’azienda che ha 1.500 dipendenti in quattro Paesi. Ogni sei mesi cambiamo lavoro, perché l’azienda cresce e abbiamo nuove sfide. Dobbiamo reinventarci costantemente. Abbiamo 17 ristoranti diversi. Non ce ne sono due uguali, o con lo stesso nome, lo stesso design o lo stesso menu! L’idea è quella di fare un gruppo di esperienze in “ospitalità”, ma non vogliamo assolutamente essere una catena che copia/incolla gli stessi ristoranti ovunque. Vogliamo ristoranti unici con la loro identità e personalità.

Sei rimasto sorpreso dall’accoglienza che il tuo concept ha ricevuto dal pubblico?

Il primo ristorante è stato aperto con un team di 15 persone. Pensavamo di servire 200 clienti al giorno, ma dal secondo giorno stavamo facendo 600 coperti al giorno e tre settimane dopo il team era composto da 45 elementi. Siamo rimasti completamente sorpresi da questo successo.

Perché ha funzionato?

Perché abbiamo sempre cercato di fare le cose con passione, autenticità e verità. Non tradiamo la qualità dei nostri prodotti e dei nostri team. Il rapporto qualità/prezzo è una delle componenti di questa formula. E poi, ci piace quello che facciamo e questo si vede. Non abbiamo mai voluto segmentare la nostra clientela. I ristoranti Big Mamma sono ristoranti per tutti, per tutte le età, tutte le categorie socioprofessionali, tutte le tipologie di budget. Puntiamo alla qualità estrema, ma rimane sempre un ristorante popolare, accessibile a tutti.

Guardando indietro, come vedi il tuo percorso professionale?

Sono una persona abbastanza umile e discreta. Non mi sarei mai immaginato di vivere questa avventura quando l’ho iniziata. Continuo a provare un grande piacere nel fare quello che faccio. Mi sento utile. Faccio questo lavoro perché mi dà la possibilità di cambiare la vita delle altre persone.

Fonte: foodandsens.com

Staff italiano da Big Mamma a Parigi. Foto © foodandsens.com

CONCLUSIONE

Abbiamo  letto anche l’intervista data al periodico monegasco, “L’Observateur de Monaco”, dicembre 2021, che riafferma quanto già scritto  nella intervista sopra citata. nonchè le caratteristiche che avrà il ristorante che apriranno al Larvotto.

C’è un frase che ci ha particolarmente colpito sul finale come risposta alla domanda come intendono continuare , che riportiamo integralmente in francese:

“Continuer à animer la philosophie Big Mamma : offrir un bon rapport qualité/prix, une vraie expérience et un voyage. Vous poussez les portes du restaurant Big Mamma, vous y retrouverez le joyeux bordel italien ! Nous allons essayer d’avoir une proposition assez attractive sur le rapport qualité/prix.”

Alla lettera questa sarebbe la traduzione:

Continuare ad animare la filosofia di Big Mamma: offrire un buon rapporto qualità prezzo, una vera esperienza e un viaggio. Spalancate le porte del ristorante Big Mamma, lì troverai l’allegro bordello italiano! Cercheremo di avere una proposta abbastanza appetibile sul rapporto qualità/prezzo.

Il ristorante Big Mamma non offrirà solo cibo italiano di grande qualità, ma il cliente troverà pure “l’allegro bordello italiano”. No comment.

Foto © Asspress.

Riflessioni oziose sul vino

Il vino è cultura, storia, tradizione, identità, ma l’insensibilità di  molti parlamentari europei ha rischiato di disperdere tutto questo; per fortuna il pericolo è stato sventato.

Riassumiamo citando la stampa di settore; parliamo di fatti successi in piena pandemia e prima dell’inizio della guerra.

Altri interessi hanno attirato il pubblico, ma qui ne vogliamo parlare. Difendere il vino è anche un modo di difendere i valori di una Europa autentica.

“È stato respinto il tentativo di demonizzare il consumo di vino e birra attraverso allarmi salutistici in etichetta già adottati per le sigarette, l’aumento della tassazione e l’esclusione dalle politiche promozionali dell’Unione Europea, nell’ambito del Cancer Plan proposto dalla Commissione Europea”.

“C’è differenza tra consumo nocivo e moderato di bevande alcoliche e non è il consumo in sé a costituire fattore di rischio per il cancro”.

È questa una delle modifiche alla relazione sul Piano di azione anti-cancro approvate martedì 15 febbraio 2022 dall’Europarlamento.

Dal testo è stato cancellato anche il riferimento ad avvertenze sanitarie in etichetta, e introdotto l’invito a migliorare l’etichettatura delle bevande alcoliche con l’inclusione di informazioni su un consumo moderato e responsabile di alcol.

“Il Parlamento Europeo salva quasi diecimila anni di storia del vino le cui prime tracce nel mondo sono state individuate nel Caucaso mentre in Italia si hanno riscontri in Sicilia già a partire dal 4100 a.C”, afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel ringraziare per il lavoro di squadra i parlamentari italiani per la difesa di un settore che vale 12 miliardi di fatturato (dei quali 7,1 miliardi di export) e offre direttamente o indirettamente occupazione a 1,3 milioni di persone secondo l’analisi della Coldiretti.

L’esistenza della straordinaria scoperta archeologica del vino in Sicilia in tempi così remoti merita qualche approfondimento. È stato prodotto sotto il sole della Sicilia, quasi 6.000 anni fa, il vino più antico d’Italia e di tutto il Mediterraneo occidentale: i residui sono stati individuati in una giara dell’Età del Rame rinvenuta in una grotta del Monte Kronio, a Sciacca, in provincia di Agrigento. A condurre le analisi è stato un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’archeologo Davide Tanasi dell’Università della Florida Meridionale (già coordinatore dei recenti scavi a Villa Romana), a cui hanno preso parte anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di Catania e gli esperti della Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento. La scoperta, pubblicata su Microchemical Journal e rilanciata dall’ANA (Associazione Nazionale Archeologi), dimostra che la viticoltura e la produzione di vino in Italia sono più antiche del previsto: non sarebbero cominciate nell’Età del Bronzo, come ipotizzato finora, bensì quasi 3.000 anni prima.

Il ritrovamento in Sicilia di giare contenenti i resti del vino più antico d’Italia. Foto © Comunicalo.it

“Ricerche precedenti avevano rinvenuto in Sardegna dei semi di Malvasia datati tra il 1.300 e il 1.100 a.C., ma questi reperti attestano solo la pratica della viticoltura. La nostra ricerca, invece – spiega Tanasi – identifica i residui della fermentazione, che implicano non solo la viticoltura, ma anche la produzione vera e propria del vino”. Le tracce di acido tartarico e dei suoi sali ritrovate nella giara non permettono di sapere se quell’antichissimo vino era rosso o bianco. Anche l’identikit dei suoi produttori non è ancora ben definito: “Sappiamo che questi territori erano abitati da comunità di agricoltori e allevatori, in cui iniziava a prendere piede la produzione tessile – precisa l’archeologo – mentre non abbiamo grandi evidenze di metallurgia”.

Certo, avere una tradizione così antica legata al vino fa dell’Italia una terra di elezione er questo nettare degli Dei. Abbiamo forse più “diritti” degli altri di parlare del vino e di scrivere libri. Infatti la produzione letteraria vinicola italiana è di tutto rispetto.

L’importanza della letteratura enologica, agronomica e viticola in terra italica, a partire dal secolo XIV e soprattutto in quelli successivi, è davvero rilevante. Naturalmente non è pensabile parlare dei libri che si occupano di vino senza fare riferimento ad alcuni elementi tra loro strettamente collegati: lo sviluppo delle tecniche agrarie, del pensiero e delle competenze scientifiche (e del nuovo veicolo comunicativo rappresentato dai caratteri a stampa grazie all’adattamento di un torchio da vino), da cui il maggior potere entro le corti, non senza conflitti col potere temporale papale e laico, degli scienziati; i cambiamenti nell’organizzazione sociale e l’emergere di nuovi ceti produttivi; il potere medico (diversi dei trattatisti di enologia sono ancora medici secondo l’antica tradizione e ciò a significare non solo l’uso del vino nella farmacopea, come già evidenziato nel capitolo precedente, ma anche lo stretto connubio tra piacere e cura di cui l’arte medica e il potere derivante sono ancora pienamente titolari); la concezione del bello e del buono, soggetta a nuovi canoni interpretativi, che si fa strada tra le arti e nella gastronomica.

Occorre cominciare la narrazione dal Ruralium commodorum libri XII di Pier de’ Crescenzi, scritto nel 1305 circa, che viene dedicato a Carlo II d’Angiò, re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309): diffuso come manoscritto in 109 copie, ha la prima edizione a stampa soltanto nel 1471. Poi alcune altre edizioni ravvicinate a fine Quattrocento: In commodum ruralium cum figuris libri duodecim, Speier, Peter Drach, c. 1490-1495; De Agricultura, Venezia, Matheo Capcasal, 1495. E di altre ancora nel Cinquecento: P. Crescenzi, De’ Opera di agricoltura. Ne la qual si contiene a che modi si debbe coltiuar la terra, seminare inserire li alberi, gouernar gli giardini e gli horti, la proprieta de tutti i frutti*, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona vercellese, 1536; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona, 1528; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano, 1538; Id., De omnibus agriculturae partibus, & Plantarum animaliumq; natura & utilitate lib. XII*…, Basileae, per Henrichum Petri, 1548.

L’incipit del libro di Piero de’ Crescenzi.

Le diverse ristampe di un testo divenuto classico indicano l’interesse crescente verso la formazione agronomica e la possibilità della sua diffusione oltre un mero ambito specialistico o di rappresentanza politica. Ed è proprio attraverso de’ Crescenzi che vengono ristampate le opere latine di riferimento dell’autore: Catone, Varrone, Columella* e Plinio il Vecchio*.

I libri citati sono reperibili alla Libreria Antiquaria Emporium.

Con un piccolo balzo in avanti non si può non menzionare lo scritto di Agostino Gallo, il più importante agronomo del tempo il quale pubblica, nel 1564, a Brescia, le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa*: «a questa seguirono tre edizioni veneziane tra il 1565 e il 1566. Nel 1566 dall’officina del veneziano Nicolò Bevilacqua uscì una versione notevolmente ampliata, dal titolo Le tredici giornate; nel 1569 uscì dapprima, sempre a Venezia ma questa volta dalla tipografia di Grazioso Percaccino, un’appendice autonoma intitolata Le sette giornate dell’agricoltura, destinata a confluire, in quel medesimo anno, nell’unico volume de Le vinti giornate dell’agricoltura*. Questa fu l’edizione definitiva e servì da base per tutte quelle successive, che finirono per dare vita ad una vicenda editoriale di assoluto rilievo nel panorama italiano di quell’epoca: dodici edizioni nel corso del XVI secolo (nove a Venezia, due a Torino ed una a Brescia); sei del XVII secolo (tutte a Venezia); quattro del XVIII secolo (a Bergamo, Brescia, Cortona e Roma). L’opera ebbe grande successo oltre che a Brescia e Venezia, anche sul territorio milanese e quello veneto: si ha infatti notizia di contratti di vendita sottoscritti dal figlio di Agostino, Mario Gallo, con librai di Milano, Pavia, Bergamo, Bologna, Piacenza, Verona e Vicenza». Nelle Giornate dell’agricoltura si trovano citazioni e riferimenti a tutti gli autori “canonici” della classicità greco-latina, assieme a quelli della tradizione medievale e della prima età moderna (Pier de’ Crescenzi su tutti, ma anche Arnaldo da Villanova, Dante, Petrarca e Boccaccio). In secondo luogo, l’opera del Gallo è l’unica ad essere tradotta, ancora nel Cinquecento, in una lingua diversa da quella d’origine (francese) e ad essere divulgata nella stessa Francia attraverso più edizioni consecutive.

Più modestamente, e con tutte le differenze del caso, anche chi scrive si cimenta nella stesura di un libro sul vino. È un’opera accessibile a tutti, scritta per dare le basi anche a chi ha poche conoscenze sul vino, per potere scegliere, analizzare ma soprattutto abbinare correttamente i vini ed i cibi. Per la gioia (lo spero) dei miei cari lettori del blog pubblicherò nel tempo piccoli pezzi del libro, che ritengo interessanti e stimolanti, soprattutto sul versante storico e culturale. Il lavoro è intitolato “Vino, parliamone”.

E per farvi sorridere, ecco una citazione celebre: 

“Monsieur, quand on a l’honneur de se faire servir un tel vin, on prend son verre avec respect, on l’observe, on le hume longuement, puis l’ayant reposé…

Et après, interrompt l’impatient, on le boit?

Non, Monsieur, pas encore! Après on repose le verre de vin sur la table, l’on en parle“.

(Charles Maurice de Talleyrand, proprietario di Château Haut-Brion). Talleyrand fu quel noto personaggio politico francese, protagonista del Congresso di Vienna del 1815. Château Haut-Brion è un grande nome che fa parte dell’aristocrazia del vino di Bordeaux, cru classé dal 1855, denominazione Pessac-Léognan, nella regione del Graves.

Château Haut-Brion.

Traduciamo, liberamente:

“ – Signore, quando si ha l’onore di farsi servire un vino così, si prende il bicchiere con rispetto, lo si guarda, lo si annusa a lungo, poi dopo averlo riposto….

– E dopo – interrompe l’impaziente – lo si beve?

– No, signor mio, non ancora. Dopo avere riposto il bicchiere sul tavolo, se ne parla”.

Se ne parla e poi si beve, o meglio, lo si degusta e poi se ne parla ancora.

Altra citazione degna di nota, visto la fama del personaggio (Edoardo VII, sovrano inglese dal 1902 al 1910, figlio della Regina Vittoria: era nato nel 1841) è la seguente: “Il vino non si beve soltanto, lo si annusa, lo si osserva, si sorseggia e…..se ne parla”.

Scene di vendemmia, dal Libro “Tacuinum Sanitatis”, 1450.

Fra i tanti libri sul vino, uno spazio importante viene dato alla degustazione e si spiega diffusamente come iniziarsi all’arte dell’assaggio, un modo per avvicinarsi alla conoscenza della materia. Il vino prima lo si guarda e si osservano con attenzione le varie declinazioni del colore, poi lo si annusa (i francesi dicono “on hume”), mettendo in azione l’odorato per riconoscere i profumi. I sensi – vista, odorato, gusto – sono così soddisfatti e si procede ad una ricognizione materiale del vino. Manca l’udito, ma a questo si rimedia facendo tintinnare i bicchieri.

 A volte si aggiunge una parola – “Salute” – come augurio; esortazione al benessere per ricordarci che anticamente il vino è stato anche considerato una medicina. Nel famoso e pluri-stampato opus “La Schola Salernitana” troviamo una regola per mantenere la buona salute che ci trova totalmente d’accordo: “Se non vuoi avere problemi, comincia ogni pranzo con un bel bicchiere di vino”.

Il vino tuttavia non coinvolge solo i sensi, ma anche il cervello e il cuore. François Rabelais scrisse: “Le vin est ce qu’il y a de plus civilisé au monde”. C’è tanta cultura nel vino, che è un segno della nostra identità; coinvolge la religione, la storia e la geografia, la letteratura e la poesia.

La nebbia agli irti colli / Piovigginando sale / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar;  / Ma per le vie del borgo  / Dal ribollir de’ i tini  / Va l’aspro odor dei vini  / L’anima a rallegrar.

(Giosuè Carducci: Rime nuove, San Martino 1861/1887).

Italiani dimenticati (a Odessa e in Crimea)

Non parliamo di quelli oggi, ma di comunità storiche italiane stabilite in quello che era l’impero zarista.
Fin dai tempi delle repubbliche marinare, Genovesi e Veneziani si erano stabiliti da quelle parti, ma la loro storia è stata dimenticata. Le minoranze italiane furono dissolte e perseguitate ai tempi dell’URSS e dopo la seconda guerra mondiale.
Abbiamo ripescato nella nostra biblioteca un volume del 2000, edizione Giuffrè di Giulio Vignoli. Il titolo del Libro è “Italiani dimenticati, le minoranze italiane in Europa”. Una ristampa è prevista, ma non è sicuro. Proprio in questo libro sono segnalate le vicissitudini di questa minoranze e la loro storia finita tragicamente.
Le ricordiamo anche noi.


ODESSA
Un nobile napoletano di origine spagnolo Giuseppe De Ribas (1749-1800), fondò, verso la fine del Settecento, la città di Odessa, in Ucraina, organizzandone il porto, la flotta e il commercio, rendendola una città importante per il Mar Nero e il Mediterraneo.

Ritratto di Giuseppe de Ribas. Collezione del Museo dell’Ermitage, S. Pietroburgo

Figlio dell’irlandese Margaret Plunkett e di Miguel de Ribas y Buyens, un esponente della piccola nobiltà spagnola arrivato a Napoli al seguito di Carlo di Borbone, era nato all’ombra del Vesuvio nel 1749, dove, all’età di 16 anni, era entrato nella Guardia napoletana con il grado di tenente. Nel 1769, a Livorno, incontrò colui che ne avrebbe cambiato la vita: il comandante in capo della flotta russa conte Aleksei Orlov, fratello di uno dei tanti amanti di Caterina II, Grigorij Grigorevic Orlov.

Caterina la Grande, imperatrice della Russia (1729-1795).

Arrivato nel Mediterraneo con la flotta del Baltico per ingaggiare battaglia con le marina ottomana in occasione della prima guerra russo-turca, Orlov rimase affascinato dal giovane ufficiale napoletano capace di esprimersi correttamente in sei lingue diverse. Decise quindi d’ingaggiarlo come interprete, proponendogli di trasferirsi a San Pietroburgo. L’avventuroso de Ribas non ci pensò un attimo e pochi mesi dopo, nel luglio del 1770, sotto le insegne della nuova bandiera, prese parte alla vittoriosa battaglia di Chesme contro la flotta turca, la prima combattuta da navi russe nel Mediterraneo. Arrivato a San Pietroburgo, assunse il nome di Osip Michajlovic Deribas ed entrò nella scuola militare del ‘Primo corpo dei cadetti’. Nella capitale, dove più tardi sarà raggiunto dai fratelli – Emanuele, Andrea e Felice – costruirà un’importante rete di relazioni, complice anche il matrimonio con la ciambellana di Caterina II, Anastasija Ivanovna Sokolova. Alle nozze, celebrate nel 1776 nella chiesa del palazzo imperiale di TsárskoyeSeló, alla periferia di San Pietroburgo, parteciperà anche la zarina che, pochi anni dopo, diventerà madrina delle due figlie della coppia. Promosso colonnello, nel 1783 entrò al servizio del nuovo favorito dell’imperatrice, Grigorij Aleksandrovic Potëmkin, che seguirà nei territori dell’Ucraina meridionale, da questi amministrati dopo le conquiste ottenute ai danni del sultano. Sulle sponde del mar Nero, de Ribas entrerà definitivamente nella storia, partecipando alle più importanti battaglie della Seconda guerra russo-turca (1787-1792).

Grigorij Aleksandrovic Potëmkin. Collezione dell’Ermitage ©.

Dopo aver preso parte allo scontro navale dell’estuario del Dnepr, all’assedio della fortezza di Ochakov, de Ribas conquisterà l’isola di Berezán e il villaggio di Khadjibei (abitato dai tatari) con la fortezza di Yeni Dunyia, dove nel 1794 fonderà, appunto, Odessa. Non solo, il suo intervento si rivelerà decisivo per espugnare l’agguerrita piazzaforte d’Izmail posta alla foce del Danubio. Sarà lui, infatti, a elaborare insieme al generale Suvorov, il piano d’attacco che, in poco più di dodici ore, farà cadere una delle città più fortificate d’Europa.

De Ribas ribattezzò il villaggio di Khadjibei “Odesso”, in omaggio alla vecchia colonia greca che si estendeva sulla costa. Luogo di incontro tra la civiltà orientale e quella occidentale, multiculturale per la sua stessa natura geografica, situata alla foce di grandi fiumi, tra cui il Danubio, divenne presto il cuore pulsante dell’impero meridionale della zarina Caterina, la quale ribattezzò il villaggio al femminile, Odessa.

Veduta di Odessa alla finedel Settecento, in un’antica stampa.


Ben presto ad Odessa si costituì una colonia italiana, che nel 1850 contava circa tremila abitanti, quasi tutti di origine meridionale. Rilevante fu il contributo che questa comunità diede alla fondazione, allo sviluppo e all’economia dell’impero russo.
 L’italiano rimase a lungo lingua ufficiale dell’attività economica della città. Cartelli stradali, passaporti, liste dei prezzi erano scritti in italiano, e la comunità italiana diede un grande contributo alla cultura della città alle porte del Mar Nero, soprattutto nell’ambito dell’architettura. Il napoletano Francesco Frapolli fu nominato architetto ufficiale della città nel 1804 e fu lui a progettare la monumentale Opera di Odessa e la famosa Chiesa della Trinità.

Teatro Nazionale di Odessa, progettato dall’architetto italiano Francesco Frapolli nel 1810.


La famosa canzone “O’ sole mio” fu scritta e composta ad Odessa da Giovanni Capurro e Eduardo Di Capua che in quel tempo si trovava nella città russa.(Non ucraina, notiamo che a quel tempo Odessa era considerata russa e la lingua ucraina era considerata un dialetto, di nessun uso ufficiale).
La musica si ispirò ad una bellissima alba sul Mar Nero e dedicata alla nobildonna Anna Maria Vignati Mazza. Il brano non ebbe immediato successo a Napoli, salvo poi diventare famosa sulle sponde del Mar Nero e da lì divenire canzone patrimonio della musica mondiale.
Inoltre, grandi attori teatrali e musicisti contribuirono alla formazione dell’Opera di Odessa, facendo della città la più europea e mediterranea dell’impero russo.
Nel passare del tempo, tuttavia, il peso della colonia italiana diminuì progressivamente; nella seconda metà dell’Ottocento la comunità italiana contava solo 286 unità, ma l’impronta italiana nella città è evidente tutt’oggi.
L’italiano Francesco Boffo (1790-1867) fu l’ architetto del comune di Odessa per oltre 40 anni, trasformando la città in un vero museo a cielo aperto dell’architettura neoclassica e neo rinascimentale italiana, rivaleggiando con San Pietroburgo. L’ opera più famosa è la scalinata Potëmkin (immortalata nel film “La corazzata Potëmkin”), oltre a circa 30 palazzi ed edifici pubblici.

La famosa scalinata di Potëmkin.


CRIMEA
Sulla storia della comunità italiana di Crimea esiste, disponibile su internet, un volume: “L’olocausto sconosciuto. Lo sterminio degli italiani di Crimea”
Settimo Sigillo-Europa Lib. Ed, 2009. Gli autori sono Giulia Giacchetti Boico*, i cui antenati facevano parte di questa comunità e Giulio Vignoli** .
Dal volume riportiamo una citazione:
“Dal 1830 fino alla fine del Secolo XIX un flusso migratorio italiano, composto soprattutto di Pugliesi, interessò la Crimea allora appartenente alla Russia zarista. Con l’avvento del comunismo il destino di questa comunità, alcune migliaia di persone, divenne problematico per poi precipitare verso un tragico destino”.


In particolare il libro rievoca la drammatica vicenda, per lo più ignota e comunque sempre ignorata da chi avrebbe dovuto e dovrebbe occuparsene, di questi Italiani, di questa vera e propria minoranza nazionale della Crimea, dalle persecuzioni nel periodo stalinista alla deportazione nel 1942 in Cazachistan, alla fame, agli stenti, alla morte di molti nelle steppe dell’Asia, per giungere fino ai nostri giorni. La pubblicazione, arricchita da importantissimi ed inediti documenti e testimonianze, vuole pubblicizzare i terribili eventi patiti dagli Italiani (uomini, donne, vecchi e bambini) e sensibilizzare l’opinione pubblica e la classe politica dell’Ucraina e dell’Italia alle difficili condizioni in cui tuttora vivono i sopravvissuti in Crimea e la diaspora negli Stati della ex Unione Sovietica. Ad essi deve essere resa giustizia”.

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*Giulia Giacchetti Boico, nipote di deportati, da anni raccoglie materiale sulla deportazione degli Italiani di Crimea. E’ la memoria storica della Comunità degli Italiani di Kerc (Crimea). Può essere definita il genius loci.
**Giulio Vignoli è professore di Diritto Internazionale nell’Università di Genova. Da tempo si occupa delle minoranze italiane che vivono nell’Europa Orientale e della loro tutela. In argomento ha pubblicato vari libri, tale “Gli italiani dimenticati. Minoranze italiane in Europa. Saggi e interventi” (Giuffrè 2000) e “I territori italofoni non appartenenti alla Repubblica italiana” (Giuffrè 1995).

Italiani a Malindi in Kenya, luci ed ombre

di Anna Bono

Dal VII secolo, sulle coste dell’Africa orientale, è fiorita la società urbana e mercantile Swahili, nata dall’incontro tra le popolazioni autoctone bantu e i colonizzatori arabo-islamici che stavano conquistando il continente. Su quelle coste, in Kenya, una antica città, Malindi, è stata radicalmente e irreversibilmente  trasformata dagli italiani: non è successo all’epoca della colonizzazione europea, bensì circa 20 anni dopo che il paese era diventato indipendente; e non si è trattato, come altrove, di persone che agivano per conto di imprese nazionali o multinazionali o su mandato del governo italiano.   

Malindi, fino agli anni 70 del secolo scorso, era una piccola città portuale di alcune migliaia di abitanti. Come all’epoca in cui, all’inizio del XIII secolo, i coloni arabi ne fecero un centro commerciale fiorente, consisteva in un quartiere arabo costruito in riva all’oceano Indiano, fatto di case in pietra di corallo, Shela, alle spalle del quale c’erano le capanne e le baracche dei Mijikenda, le tribù dell’immediato entroterra. A Malindi abitavano anche degli asiatici, discendenti delle famiglie portate in Kenya dagli inglesi a partire dalla seconda metà del XIX secolo. Non lontano da Shela, infine, sorgevano alcuni alberghi frequentati da europei, prevalentemente inglesi e tedeschi, e i cottage degli inglesi residenti sugli altipiani che, a Malindi e in altre località della costa, andavano in vacanza o si trasferivano dopo la pensione.  

Alla fine degli anni 70, però, a Malindi sono arrivati degli italiani – decine e presto centinaia di persone, alla spicciolata, partite dall’Italia per motivi e con i progetti più diversi – che in pochi anni ne hanno fatto un centro turistico in rapidissima espansione, gestendo quasi del tutto, direttamente o indirettamente, le attività del settore e il suo indotto. All’inizio degli anni 80 c’erano già una pizzeria, una gelateria, un ristorante che serviva pasta importata dall’Italia, tutti locali frequentati da italiani residenti e in vacanza. 

L’impronta italiana più evidente è quella fin da allora impressa all’ambiente urbano. Tre italiani, seguiti da altri che li hanno imitati anche se non sempre con risultati altrettanto buoni, hanno incominciato ad acquistare terreni, a Malindi e nei villaggi costieri vicini, e a costruire ville, alberghi, complessi residenziali destinati ai turisti italiani che affluivano sempre più numerosi. Ispirandosi agli ambienti e agli scenari del film “La mia Africa”, uscito nel 1985, e reinterpretando la struttura e i decori delle case swahili di Shela, i metodi di costruzione tradizionali, i materiali edilizi locali – blocchi di corallo bianco per i muri, pietra di Galana per i pavimenti, makuti (le tegole di foglie di palma che ricoprono le capanne mijikenda) per i tetti, magogo (i pali e le travi di legno usati per sostenere soffitti e pareti) – hanno creato uno stile architettonico italiano, originale e splendido: hanno costellato Malindi di grandi, candide costruzioni con altissimi, spettacolari tetti di makuti, arredi etnici di produzione artigianale e ampie verande sorrette da colonne ricavate da tronchi d’albero, immersi in giardini incantevoli delimitati da siepi di bouganvilles di tutti i colori. Quasi subito sono stati costruiti anche dei quartieri nello stesso stile, ma con case più piccole, meno scenografiche e quindi meno costose, sempre però circondate dal verde.  

Paesaggio del film “La mia Africa”, foto © Stardust.it

Solo Shela non è cambiata nel tempo. Invece, tutto attorno, oltre alle centinaia di case e alle decine di alberghi e locali italiani, si sono moltiplicate attività commerciali, artigianali, agricole. Oggi la città ha più di centomila abitanti africani. 

Si dice, a ragione, che a “inventare” Malindi, a trasformarla in una “perla dell’oceano Indiano”, capace di evocare le atmosfere coloniali della “Happy Valley”, la regione sugli altipiani dove vivevano i bianchi all’epoca di Karen Blixen, è stato Armando Tanzini, un inquieto, geniale artista e architetto livornese stabilitosi in Kenya negli anni 70. Suoi capolavori sono la casa in cui vive, a pochi metri dal Vasco da Gama Pillar (il navigatore portoghese Vasco da Gama salpò nel 1498 da Malindi alla volta dell’India, sfruttando i venti Monsoni) e il White Elephant Sea & Art Lodge, uno dei resort più belli della costa kenyana, entrambi presi a modello, copiati anche per la costruzione e l’arredo delle case e degli hotel più modesti. 

Cartina antica: MALINDI AND VASCO DE GAMA’S PILLAR. KENYA. MAASAI LAND, 1885. 

Armando Tanzini definiva Malindi “un cavallo di razza” contro chi secondo lui la trattava come un “animale da soma”. Se infatti una parte degli italiani hanno puntato come lui su ville e hotel di lusso e atmosfera – Kilili Baharini, Luna House, Palm Tree Club, Leopard Point Resort, Simba wa kale… – destinati a una clientela medio alta e alta, molti altri invece si sono rivolti al turismo di massa, a clienti con poche aspettative, attratti dai prezzi economici di appartamenti e villette a schiera. La città ne ha sofferto: oltre i confini dei resort e delle ville nascosti e protetti da parchi e giardini, chiasso, polvere, sporco, confusione, troppe automobili, karaoke e discoteche di notte, a tutto volume sulle spiagge, tanti beach boys e prostitute confluiti dal resto del paese.

Se Armando Tanzini ha inventato Malindi, a rilanciarla ciononostante, all’inizio di questo secolo, è stato un altro italiano, Fabio Briatore, che prima ha costruito per sé una villa nel “tipico stile locale”, trasformata nel 2013 in resort a cinque stelle, e in seguito ha costruito un secondo resort per VIP, The Billionaire. In entrambi ha ospitato personaggi dello spettacolo, dello sport e della politica come Silvio Berlusconi, Naomi Campbell, Simona Ventura, Fernando Alonso. Sul suo esempio, in quel periodo degli italiani celebri hanno anch’essi comprato casa a Malindi. 

Billionaire Resort, foto © Billionaire Travel

Ma, anche se ormai tutti parlavano italiano, si vedevano i canali televisivi italiani e nei supermercati si trovavano Nutella, pelati e parmigiano, i tempi d’oro erano finiti. Un susseguirsi di errori compiuti dagli operatori turistici, l’aumento esponenziale della delinquenza comune e altri fattori hanno ridotto i flussi turistici, molti anni prima che il Covid li interrompesse del tutto per quasi due anni. Nel 2017, in una Malindi da troppo tempo semi vuota, persino Briatore ha deciso di mettere in vendita i suoi resort. Il calo delle presenze ha colpito duramente hotel, ristoranti, residence, attività commerciali. Splendidi gusci vuoti, le ville e gli hotel cinque stelle di cui, nonostante gli scarsi introiti, i proprietari riescono a prendersi cura; in progressivo degrado, le strutture semi o del tutto abbandonate da chi non è in grado di sostenere le spese di manutenzione: così si presenta Malindi. Centinaia di italiani tuttavia continuano a viverci, sperando in tempi migliori: chi per scelta, potendo comunque permettersi lì un invidiabile tenore di vita, chi per necessità, perché altrimenti non saprebbe dove andare; tutti, forse, in qualche misura, riluttanti a lasciare la “Happy Valley” che hanno contribuito a creare, a immaginare una vita lontano dall’Africa.       

Il Comites a Malindi, al servizio degli italiani che ancora ci vivono. Foto © MalindiKenia.net

Breve biografia dell’Autrice di questo articolo

Anna Bono è stata ricercatore in Storia e istituzioni dell’Africa presso il Dipartimento di culture, politica e società dell’Università di Torino fino al 2015. Dal 1984 al 1993 ha soggiornato a lungo in Africa svolgendo ricerche sul campo sulla costa Swahili del Kenya. 

Dal 2004 al 2009 ha collaborato con l’Istituto superiore di studi sulla donna dell’Università Pontificia Regina Apostolorum. 

Dal 2004 al 2010 ha diretto il dipartimento Sviluppo Umano del Cespas, Centro europeo di studi su popolazione, ambiente e sviluppo. Fino al 2010 ha collaborato con il Ministero degli Affari Esteri nell’ambito del Forum Strategico diretto dal Consigliere del Ministro, Pia Luisa Bianco. 

Collabora con mass media prevalentemente di area cattolica. 

Su Africa, relazioni internazionali, problemi di sviluppo, cooperazione internazionale, emigrazione ha scritto oltre 1.600 articoli, saggi e libri scientifici e divulgativi.

Francesi e fascismo

I Francesi guardano sempre più all’Italia, non solo apprezzando cibo e vini, ma ristudiando il Fascismo.

A proposito di cibo e vino, non tutti sanno che a Parigi vi sono circa 1.500 (millecinquecento) ristoranti italiani; non solo, ma il più grande di tutti, di qualunque nazionalità parliamo, è italiano.

Si tratta di “La felicità”, già il nome dice tutto, del gruppo Big Mamma, 4.500 metri quadrati.

Ristorante Big Mamma nel 13° arrondissement a Parigi.

Parlando di vino, i dati all’esportazione segnalano che il Prosecco comincia ad essere molto apprezzato dai Francesi.

Non è di questo tuttavia che vogliamo parlare, magari un’altra volta.

Ritorniamo all’interesse per la storia del fascismo. 

In distribuzione si trova, attualmente in Francia e nei paesi francofoni,  in tutte le edicole e librerie, il numero di febbraio/marzo 2022 del giornale Le Figaro ed il suo fascicolo della collana Histoire. Ricordiamo che Le Figaro è il più importante quotidiano di Francia, sul versante liberale e conservatore in contrapposizione a Le Monde sul fronte, diciamo, progressista. 

Non si tratta di un’opera per iniziati, ma destinata ad un vasto pubblico.

Il titolo esatto del fascicolo è “Mussolini, l’illusion fasciste”, ed è introdotto dal direttore del periodico, Michel De Jaeghere, giornalista autorevole, storico e studioso. Le sue conclusioni sul tormentato periodo sono ispirate dai giudizi espressi in Italia dal grande storico Renzo De Felice.

Riportiamo qui uno stralcio del suo scritto, dando per scontato che i lettori di questo blog leggano il francese. 

“… le fascisme historique. Les historiens marxistes ont prétendu le réduire à l’utilisation, par les classes possédantes, de bandes de voyous pour faire obstacle à la révolution prolétarienne, bientôt consacrée par le ralliement des forces réactionnaires, l’armée et l’Eglise catholique, à une dictature. Le chercheur israélien Zeev Sternhell a vu en lui la résurgence de la pensée contre-révolutionnaire française, telle qu’elle s’était radicalisée avec Maurice Barrès à l’occasion de l’affaire Dreyfus.

Le grand historien italien Renzo De Felice a montré au contraire qu’il fut d’abord une révolution anthropologique et culturelle parente du jacobinisme, visant à remédier à la dissolution des structures sociales traditionnelles sous les coups de boutoir de l’individualisme par la mise en œuvre d’une communauté révolutionnaire: celle des hommes nouveaux groupés autour du parti unique et mis au service d’un État chargé de donner un organe et une âme à l’aspiration naturelle de l’homme à vivre une aventure collective. Qu’il ne relevait nullement du désir contre-révolutionnaire de revenir au passé, à la société organique, aux liens traditionnels, mais de la volonté de construire une communauté nationale unie et hiérarchisée sur le modèle d’une armée en bataille.”

Copertina di febbraio/marzo 2022 del supplemento “Histoire” del giornale Le Figaro.

Il saggio ripercorre la storia del movimento fascista, nelle sue  articolazioni, sottolineando i vari aspetti del rapporto con la monarchia sabauda e la chiesa cattolica. Il regime fascista non riuscì mai ad essere globalmente totalitario, perché aveva dovuto convivere con altri poteri costituzionali.

La improvvida alleanza col nazismo lo portò ad estremi che determinarono la sua rovina.

Nel volume vengono passati in rassegna i libri recenti apparsi numerosi in questo periodo e nel contempo vengono approfonditi i vari aspetti del regime. La storia  viene narrata da Philippe Foro, specialista dell’Italia contemporanea, dell’Università di Tolosa, autore di “L’Italie fasciste” e di “Dictionnaire de l’Italie fasciste”

Michel Ostenc, professore dell’Università di Angers, che ha insegnato anche a Perugia e Genova, ci parla dei rapporti di famiglia di Mussolini. “Ciano, le gendre de Mussolini”, “Mussolini. Une histoire du fascisme italien”.

Altro autore che scrive sulle le relazione che il fascismo ebbe con Chiesa, monarchia, partito ed altro è Frédéderic Le Moal, professore al Liceo militare di Saint-Cyr e autore dei volumi “Histoire du fascisme” e di “Victor Emmanuel. Un roi face a Mussolini”, editore Perrin.

Benito Mussolini tentò perfino di ricostruire Roma, per adeguarla ai sogni imperiali. Ne scrive Alexandre Grandazzi, professore alla Sorbonne. Secondo questo autore gli architetti ligi al regime furono presi da un vero delirio nel volere sventrare e ricostruire Roma. Per fortuna  fu lo stesso Mussolini che intervenne per  limitare i danni, e porre dei limiti.

Da leggere è, dello stesso Grandazzi, “Urbs, Histoire de la ville de Rome”, (Perrin 2017). 

Procediamo ancora con la segnalazione dei vari volumi sul Fascismo apparsi di recente.

George-Henri Soutou, professore emerito alla Sorbonne, ha scritto “Europa!” (Editore Taillandier) in cui descrive  i progetti  di Mussolini e Hitler per rifare la geografia del continente, una volta diventato nazi-fascista. 

Didier Musiedlak descrive con un brillante articolo quando il Fascismo crollò come un colosso dai piedi di argilla, in poche ora, fra lo stupore di tutti, a seguito del voto negativo ricevuto nella sedi più elevati dello stesso partito fascista.

Didier Musiedlak è professore emerito alla Università di Parigi-Nanterre, grande specialista di cose italiane, è autore di “Mussolini” (Presse de Science Po). Viene annunciato un suo nuovo libro, in uscita nel marzo prossimo: “La marche sur Rome, entre histoire et mythe” (Presse de sciences Po)

Eric Vial, anche lui specialista  dell’Italia contemporanea, (ma quanti sono!)  ha scritto un libro che descrive chi furono gli altri personaggi del regime e dell’epoca, “Guerre, société et mentalité. L’Italie au premier XXe siècle” (Editeur Seli Arslan).

Come riepilogo il fascicolo si conclude con una rassegna dei tanti libri apparsi sull’argomento, non li ricordiamo tutti ma concludiamo segnalando un’opera singolare, scritta da un italiano direttamente in francese: “Le  Mystère Mussolini” (Perrin 2021).

Il  libro non è una biografia di Mussolini, ma il tentativo di mettere in luce un caso che continua a pesare sulla coscienza degli italiani a più di settant’anni dalla caduta del fascismo: il caso di un uomo che fece di tutto per restare indecifrabile e divenne, in tal modo, un simbolo delle peggiori passioni collettive.

Attraverso un’ampia e rigorosa documentazione, Maurizio Serra esamina  gli aspetti della vicenda politica e umana di Mussolini: ne indaga le pulsioni profonde, le scelte (e non scelte), le affermazioni e i comportamenti che si sono  poi riverberati sul destino dell’Italia.

Nato a Londra nel 1955, diplomatico con una brillante carriera ha rappresentato l’Italia a Berlino Ovest e a Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica, è stato ambasciatore all’Unesco a Parigi  e all’Onu a Ginevra, scrittore e saggista. Tra i suoi libri, spiccano le biografie degli scrittori Curzio Malaparte, per il quale ha vinto il Premio Goncourt per la biografia, Italo Svevo e Gabriele D’Annunzio.

Nel 2018 ha ricevuto il Prix Fondation Prince Pierre de Monaco.

Il 9 gennaio 2020 Maurizio Serra viene eletto all’Académie française. È il primo Italiano a ricoprire la prestigiosa carica a vita dell’istituzione culturale di Parigi.

Italiani all’estero: quanti siamo?

È stato pubblicato, agli inizi del 2022, nella Gazzetta Ufficiale il decreto del Ministero dell’Interno che, ogni anno, pubblica il numero dei cittadini italiani residenti all’estero, sulla base dei dati dell’elenco aggiornato, riferiti al 31 dicembre dell’anno precedente. L’elenco è quello curato dalla AIRE, album degli italiani residenti all’estero.

A tale data gli italiani residenti all’estero erano 5.806.068: 153.988 in più rispetto all’anno precedente.

La maggior parte di loro risiede in Europa: 3.189.905, 91.027 in più rispetto ai dati dello scorso anno; segue l’America meridionale, con 1.804.291 residenti, con 49.988 persone in più; al terzo posto l’America settentrionale e centrale, con 505.567 residenti e un incremento di 10.420 connazionali; chiudono l’Africa, Asia, Oceania e Antartide con 306.305, 2.553 presenze in più.

Secondo questi dati, l’unica Italia che continua, demograficamente, a crescere è quella che risiede all’estero: al 1° gennaio 2021, cioè un anno fa erano 5.652.080 gli italiani residenti all’estero (il 9,5% degli oltre 59,2 milioni di italiani residenti in Italia) con un aumento del 3% nell’ultimo anno, pari a 166 mila presenze (dati del 12 novembre 2021, informazioni ricavate dalla pubblicazione  Rapporto italiani nel mondo, RIM, edizione del 2020, del quale abbiamo già dato notizia in questo Blog). 

Esiste quindi una grande Italia, fuori d’Italia, senza contare i milioni di oriundi che ora chiamiamo “Italici” secondo le definizione adottata dalla associazione  “Svegliamo Italici,” che ha lanciato il suo appello nel  settembre 2021. Vedi in questo blog, cliccando “italici” nella casella CERCA.

Rapporto Italiani nel mondo 2021.

Gli italiani all’estero crescono perché vengono dall’Italia, ma anche perché le coppie giovani fanno figli, quando si stabiliscono  all’estero in maniera permanente.

Cogliamo questa occasione per segnalare l’edizione di quest’anno del RIM che si interroga e riflette su come l’epidemia di Covid-19 abbia influenzato la mobilità italiana. Cosa ne è stato dei progetti di chi aveva intenzione di partire? Come hanno vissuto coloro i quali, invece, all’estero già risiedevano? Chi è rientrato? Chi è rimasto? E cosa è successo ai flussi interni al Paese?

Sono questi i principali interrogativi ai quali il Rapporto Italiani nel Mondo 2021 risponde e lo fa con diverse indagini specifiche, molte riflessioni tematiche e con un viaggio in 34 città del mondo dove vivono comunità italiane vivaci e residenti da più o meno tempo. Di queste comunità italiane all’estero vengono raccontate storie, riportati numeri, descritte problematiche, esposti i punti di forza e quelli di debolezza in modo che il lettore possa, alla fine del viaggio, essere a conoscenza di come, in ciascuno dei luoghi considerati, gli italiani in mobilità hanno vissuto e stanno vivendo la pandemia globale.

Ricchi! Borghesi! Ancora pochi mesi!

Slogan sessantottesco, è il titolo stimolante di una ricerca, sotto forma d libro, del saggista tedesco Rainer Zitelmann.
Tradotto in italiano da Guglielmo Piombini, libraio in Bologna ed intellettuale liberale/libertario, cerca di spiegare come e perché condanniamo chi ha i soldi.
L’editore è IBL Libri, Torino, ottobre 2021.
Interesserà agli Italiani del Principato di Monaco, spesso guardati di traverso dagli italiani in Italia, perché supposti ricchi, e la loro ricchezza, a torto o a ragione, a volte considerata di origini dubbiose.

Che cosa tuttavia pensa veramente la gente della ricchezza e dei ricchi? Se tanti libri sono stati scritti sugli stereotipi che riguardano minoranze e specifici gruppi sociali, nessuno studio approfondito è però mai stato compiuto sui pregiudizi verso le persone facoltose.
Nel libro pubblicato da IBL, lo storico e sociologo tedesco Rainer Zitelmann esamina per la prima volta in maniera comparata gli atteggiamenti nei confronti della ricchezza e dei ricchi in cinque paesi occidentali: Francia, Germania, Gran Bretagna, Italia e Stati Uniti.
 
Chi sono coloro che si meritano le ricchezze guadagnate? La domanda su quali gruppi meritino la propria ricchezza, come riporta lo stesso Zitelmann in un suo articolo pubblicato in Italia, ha determinato le seguenti risposte degli italiani: mentre il 42% crede che gli imprenditori meritino la loro ricchezza, solo il 15% dice lo stesso per gli ereditieri. In fondo a questa “scala di popolarità” ci sono gli investitori immobiliari e i banchieri (rispettivamente, 10% e 8%).
 
Il libro è stato presentato al pubblico il primo di dicembre. Insieme all’autore sono intervenuti Luca Garavoglia (Presidente, Gruppo Campari), Angelo Miglietta (Professore ordinario di Economia e Management e Pro-rettore, Università IULM) e Nicola Rossi (Professore ordinario di Economia Politica, Università di Roma Tor Vergata e membro del Cda IBL).
In verità nei film e nelle serie televisive, le persone ricche sono spesso rappresentate in maniera negativa: ciniche, avide e senza cuore.

Dalle risposte date nei sondaggi esaminati dall’autore emergono interessanti discrepanze tra i Paesi, ma alcune differenze si trovano anche all’interno dei Paesi stessi, considerati l’età, il genere, il reddito o il livello d’istruzione delle persone che hanno partecipato all’indagine. Nel libro viene inoltre sviluppato un Indice dell’invidia sociale che denota come molti pregiudizi nascano anche da una errata percezione delle dinamiche economiche e da un diffuso sentimento anti capitalista.
A questo proposito segnaliamo un recente studio effettuato dal Crédit Suisse, citato da “Anteprima”, quotidiano on-line, in data del 14.01.2022 mostra come è distribuita la ricchezza in alcuni Paesi.
In Italia l’1 % dei più ricchi possiede il 22% della ricchezza nazionale, negli Stati Uniti d’America l’1% possiede il 35 %
In Cina, Paese che si dichiara comunista, le percentuali sono per l’1% il 31%.
Nella Federazione russa, Paese post-comunista, la percentuale è del 58%.

Rainer Zitelmann è nato il 14 giugno 1957 a Francoforte sul Meno ed è uno storico, sociologo, imprenditore e investitore immobiliare tedesco.
Insegna in diverse università.
È autore di ventitré libri, tra cui “La forza del capitalismo” (IBL Libri, 2020).

Il libro può essere ordinato alla Libreria di Piombini.
Libreria del Ponte libreriadelponte@tiscali.it

Amazon all’italiana?

Per decenni nelle case degli italiani arrivava Postal Market (diventato più tardi Postalmarket, scritto tutto attaccato), catalogo di vendita per corrispondenza che aveva conquistato le famiglie.

“Con Postalmarket sai, uso la testa. E ogni pacco che mi arriva è una festa”. Recitava così lo slogan di Postalmarket, il modello di business statunitense della vendita tramite catalogo importato in Italia nel 1959 su un’idea dell’imprenditrice milanese Anna Bonomi Bolchini. Ebbene, che le amanti dello shopping smart e ragionato si preparino ad usarla di nuovo, la testa: Postalmarket è riapparsa in 18.000 edicole italiane il 23 ottobre 2021 (dopo aver dichiarato fallimento nel 2015), sfruttando non solo il potere delle nuove piattaforme e-commerce digitali, ma regalandoci anche un’esperienza shopping amarcord che farà della leggendaria rivista il suo cuore pulsante.

Può sembrare azzardato riproporre in un’epoca di e-commerce un catalogo di vendita per corrispondenza, ma cosi non è.

Dopo Anna Bonomi Bolchini, il pilota è Stefano Bortolussi, ovviamente lui pure cresciuto in compagnia di Postalmarket e che non considera Bezos un avversario, ma un modello. Se la fortuna di Amazon si è basata sulla capacità di soddisfare ogni cliente col singolo prodotto che cercava, Bortolussi ha in mente un ”magazzino” all’italiana, una via tricolore all’e-commerce che magari è pure benedetta dalla crisi di disponibilità di certi prodotti: “Venderemo solo prodotti italiani”, è la promessa, lasciando intendere che la sfida è quella di fare crescere il mercato e i consumatori di casa nostra, farli abituare a un nuovo modo di vendere e comprare, segnatamente a un nuovo rapporto tra aziende e consumatori.

Uno dei prodotti alimentari italiani proposti da Postalmarket (Foto © dal sito internet).

Bortolussi nemmeno nasconde che persino il coronavirus è stato un’opportunità, facendo diventare esperte di Web generazioni che prima lo frequentavano poco e male, per non dire che erano platealmente ostili; pure la fase preparatoria dello sbarco sul mercato è stata più facile, paradossalmente, durante il primo lockdown, perché ha permesso di riunire in digitale le tante anime diverse dell’azienda, tra Friuli Venezia Giulia, Veneto e Piemonte. Ovvio che poi si punterà all’unificazione, intanto Postalmarket ha casa anche a Treviso, nella H Farm di Donadon, e tra le firme tecnologiche della squadra c’è anche la Storeden di Francesco D’Avella. In campo, un mini esercito di centinaia di persone.

La partenza, come si diceva, ha qualcosa di romantico: in 20.000 hanno prenotato la prima copia del magazine, sui social la tribù conta già 50.000 follower e la road map prevede che la crescita prosegua sia online sia offline, con una offerta più che olimpica: “Partiamo con 6 aree, non ci bastavano 5 cerchi. Ci sono l’intimo, l’abbigliamento classico, i prodotti di bellezza e quelli per la casa. Il tempo libero allargato a tutti i nuovi consumi dello sport e poi cibo e bevande, il più made in Italy di tutti i settori”.

Il sito di Postalmarket è già attivo (www.postalmarket.it), mentre il catalogo cartaceo in edicola ha come volto di copertina quello della conduttrice televisiva italiana Diletta Leotta. “È per me un onore essere stata scelta per la copertina del primo numero del nuovo Postalmarket che nel passato ha ospitato grandi icone di bellezza, da Cindy Crawford a Claudia Schiffer, da Carla Bruni a Monica Bellucci – ha dichiarato Diletta – È quindi un grande privilegio comparire sul mitico catalogo che ha fatto scoprire agli italiani la vendita per corrispondenza, anticipando di alcuni decenni il successo della vendita online”.

La  strategia è quella di lavorare molto sul calendario, presentare sul magazine le novità e poi renderle disponibile online, pian piano coinvolgendo anche quanti, all’estero, subiscono il fascino dell’Italia e possono arrivare a scoprirne i prodotti meno noti. Postalmarket vorrebbe insomma essere un gruppo allargato, all’insegna della qualità: non solo grandi aziende, ma anche artigiani che puntano a crescere e finalmente possono farlo avendo una platea più ampia.  Postalmarket vuole dimostrare quanto spazio c’è in Italia per l’e-commerce: salutiamo l’iniziativa e la faremo conoscere.

Una mostra da non perdere

Nel quadro della BACS (Biennale d’Arte Contemporanea Sacra) che ha luogo a Mentone ogni due anni, dal 1 al 31 Ottobre e che è attualmente in corso, questo blog ha organizzato una “mostra nella mostra” intitolata “Italica”.

Nel quadro della BACS (Biennale d’Arte Contemporanea Sacra) che ha luogo a Mentone ogni due anni, dal 1 al 31 Ottobre e che è attualmente in corso, questo blog ha organizzato una “mostra nella mostra” intitolata “Italica”.

Un’altra iniziativa che porta il nome “Italica” è stata organizzata a Roma dall’associazione “Svegliamoci Italici” nel corso di una conferenza stampa internazionale che si è svolta il 23 settembre nella sede della Stampa Estera.
La mostra “Italica” dura fino al 31 ottobre, è aperta tutti i giorni della settimana dalle 10,00 alle 19,00. L’entrata è libera e il pass sanitario è richiesto.
Per informazioni: contact@biennale-bacs.com