Genova e la lingua genovese

Monegasco e genovese sono due varianti dello stesso idioma.

Tutto questo emerge da un recente volume, “Gênes et la langue génoise, expression de la terre et de la mer, langue d’ici et langues d’ailleurs”.

Si tratta di una raccolta degli ”Atti del 16° colloquio internazionale sulle lingue dialettali“ (Monaco, 16 novembre 2019), pubblicati sotto la direzione di Claude Passet. Prefazione di S.A.S. il Principe Alberto II di Monaco. Formato 145 x 230 mm, 622 pagine, 90 illustrazioni, Monaco, Edizioni EGC, 2021. ISBN 978-2-911469-67-1.

La raccolta contiene trenta articoli, in francese, italiano e monegasco, di ricercatori, accademici, storici e linguisti di nove Paesi, dodici università e vari centri di ricerca.

I contributi riguardano la storia, la storia dell’arte, la lessicografia, la linguistica, la sociolinguistica del “mondo genovese” in senso lato (Liguria, Monaco, Provenza, contea di Nizza, Sardegna, Svizzera, Tunisia, Isole greche, mondo marittimo mediterraneo e Sud America), dal XII secolo ai giorni nostri. Particolare attenzione è stata dedicata al Principato di Monaco e al suo rapporto con l’area genovese.

Claude Passet è l’attuale presidente della Académie des Langues Dialectales de Monaco. L’Accademia ha avuto lo statuto approvato nel 1981, con il sostegno del Principe allora regnante Rainier III.

Abbiamo già parlato del monegasco in  questo blog, pertanto ricordiamo ai nostri lettori che Il monegasco è una lingua italica, l’erede della parlata dei genovesi che occuparono la Rocca nel lontano 8 gennaio 1297. La lingua si è preservata fino ad oggi anche se vi sono stati cambiamenti, modifiche e interazioni con le parlate circostanti; nei luoghi vicini non si parlavano dialetti liguri, ma provenzali, definiti dai linguisti simili, ma non uguali e non sempre intercomprensibili.

La lingua di Genova ha avuto nei secoli una grande diffusione grazie al dinamismo dei suoi mercanti, banchieri e marinai. Non è un caso che Cristoforo Colombo fosse genovese.

In Corsica, in Sardegna vi sono località dove ancora lo si parla. In passato è stato presente in Tunisia, a Gibilterra; il dialetto di Buenos Aires è stato infarcito di parole liguri. Lo si parla ancora a Genova e in Liguria, ma non possiamo prevedere per quanto tempo ancora.  

Secondo il grande storico Fernand Braudel, Genova, la Superba, è stata “una economia mondiale, uno stato globale, un impero senza territorio,  Il suo tumultuoso gioco politico interno – scrive ancora Braudel – non avrà riflessi negativi sulle sue collettività all’ estero, una rete che va dal Mediterraneo orientale a Malaga e poi a Siviglia, a Nord a Londra, a Southampton e a Bruges, a Sud fino al Nord Africa. La sua forza è il sentimento di solidarietà e di lealtà delle collettività genovesi all’ estero..”. 

Fernand Braudel.

Braudel, uno dei più importanti studiosi europei di questo secolo, era convinto che il capitalismo moderno fosse nato proprio a Genova. Nel suo saggio “Civiltà e imperi nel Mediterraneo nell’età di Filippo II”, Braudel definisce gli anni dal 1550 al 1640 “il secolo di Genova”, perché nella città si sviluppò ogni tipo di commercio. I genovesi ancora oggi sono riservati, non amano esibire le loro ricchezze e i tesori della loro affascinante città, non si sa se per pudore o per difendersi da qualsiasi contaminazione.

Genova e la Liguria furono il centro di quel vasto mondo per l’appunto chiamato da storici, linguisti e storci delle lingue come “Celto-Ligure” perché la popolazione risultava da un misto di Liguri e Celti.

Sappiamo che i Liguri costituivano lo strato più antico dell’insediamento d’Italia, che risale all’inizio del secondo millennio a.C. Furono soggiogati e poi sterminati dai Romani nel II secolo a.C. 

La loro lingua, il ligure, non era probabilmente di origine indoeuropea, ma pochi studi sembrano essere stati dedicati a questo argomento e la questione rimane tuttora aperta.

L’attuale lingua genovese conserva ancora influenze liguri, ma è diventata romano-celtica e indoeuropea.

Dal V secolo d.C., il ligure era così celtico da essere appena distinguibile dal gallico. Dal XIII secolo il genovese fu una lingua prestigiosa per le fiorenti attività economiche della Repubblica di Genova. Per tutto il Medioevo, il genovese fu usato come lingua amministrativa e come lingua diplomatica in gran parte del Mediterraneo. Nonostante una dominazione politica di cinque secoli, i genovesi non riuscirono a propagare la loro lingua, se non in alcune isole linguistiche della Corsica e della Sardegna; essi stessi adottarono il toscano come lingua scritta.

Il genovese rimase la lingua parlata dei genovesi fino al XIX secolo, ma declinò con la scomparsa della Repubblica di Genova.

Dall’inizio dell’Ottocento l’italianizzazione della Liguria ha portato alla dialettizzazione del genovese, ma il suo uso è continuato come lingua regionale in Italia (in Liguria), e sembra ancora abbastanza diffuso. In effetti, il numero di parlanti genovesi sarebbe di almeno 700.000, pari al 41% di una popolazione stimata di circa 1,7 milioni di persone. Oltre che in Italia, le varietà liguri-genovesi sono utilizzate a Monaco — lingua monegasca — e in Sardegna, in particolare a Carloforte (isola di San Pietro) e Calasetta (isola di Sant’Antioco), oltre che a Bonifacio (isola di Corsica ). Affinità linguistiche si possono osservare anche con alcuni dialetti meridionali d’Italia, in particolare il calabrese.

C’è chi si batte per la sua sopravvivenza, ma solo a Monaco ha acquisito dignità letterarie e uno status di lingua nazionale. Vi sono pure dizionari, grammatiche, fumetti di Tintin, reperibili alla FNAC di Monaco e un libro sul Papa emerito, “Joseph e Chico, ün gato chœnta a vita de Papa Benedetu XVI” pubblicato dalla Liamar Editions Monaco, reperibile presso l’editore.

Lo si studia a scuola, è obbligatorio, può essere materia d’esame per la maturità.

L’alfabeto è composto di 23 lettere, le stesse della lingua italiana ma non vi sono pertanto le lettere k, w e x. Le vocali si pronunciano  come in Italiano quindi la “u” si pronuncia u non ü come in francese. La “e” e la “o” sono in generale più chiuse che aperte. Esiste il suono “û”. I dittonghi si pronunciano come in Italiano, cioè distaccando i suoni delle singole vocali, quindi aiga, che vuol dire acqua, si dice a-i-g-a.

Anche le consonanti si leggono come in italiano. C’è qualche problema con la pronuncia della “r” fra due vocali. La pronuncia esatta può essere recepita solo da un monegasco che parli monegasco. La “j” si pronuncia invece come in francese. La “c” ha anche il suono “ç”  che si legge “s”, vedi  “tradiçiun”. L’accento tonico è di solito sulla penultima sillaba. 

Potete ora leggere correttamente e tranquillamente qualche proverbio

“U luvu perde u pûu ma non u viçi”.  Siccome è facile, non vi diamo la traduzione.

Questo invece è più difficile: “Qandu a marina stirassa i massacàn, se nun ciœve ancœi ciœve demàn”. Quando il mare trascina i sassi, se non piove oggi pioverà domani.

Sola andata

Delfina Licata, che recentemente ha partecipato al Convegno “Italia Eterna” promosso da Alter Italia, è l’anima di uno strumento essenziale per l’analisi dell’emigrazione italiana all’estero: si tratta del “Rapporto Italiani nel Mondo” (RIM) di Fondazione Migrantes, giunto quest’anno alla diciassettesima edizione.

Delfina Licata

La presentazione della nuova edizione del RIM a Roma ha rappresentato anche l’occasione per fare il punto su una situazione a dir poco senza precedenti: dal 2006 ad oggi la presenza all’estero è progressivamente cresciuta, superando i 5,8 milioni.

Il “Rapporto” porta alla luce un fatto curioso: sono più i connazionali fuori dai confini che gli stranieri residenti in Italia.

Oggi gli italiani risultano residenti in ogni luogo del mondo e ogni singolo territorio italiano ha visto in passato, e continua a vedere oggi, gli italiani partire, a volte definitivamente. 

Il profilo di questa massa di popolazione è complesso e molto vario: sono giovani, giovani adulti, adulti maturi, anziani o minori. Oltre 2,7 milioni sono partiti dal Meridione; più di 2,1 milioni sono partiti dal Nord Italia e il 15,7% è, invece, originario del Centro Italia. Il 54,9% degli italiani sono in Europa, il 39,8% in America, soprattutto centrale e meridionale.

Come vediamo, più della metà degli italiani che emigrano scelgono i Paesi europei.

Ma non è un fatto nuovo: già nel Cinquecento l’Europa è il continente più gettonato delle masse migratorie, che intrecciando rapporti di vario tipo con i governi e le popolazioni locali. Se durante i primi secoli a lasciare l’Itala sono avventurieri e conquistatori, si stabilizzerà ben presto quello che le scienze storiche e sociali hanno battezzato il modello delle tre M: mercanti, missionari e militari.

Ma torniamo ai nostri giorni: coloro che emigrano sono italiani che restituiscono un volto ancora più composito del nostro Paese rendendolo interculturale e sempre più transnazionale, composto cioè da italiani che hanno origini diverse (nati e/o cresciuti in paesi lontani dall’Italia o nati in Italia in famiglie arrivate da luoghi lontani) e che si muovono con agilità tra (almeno) due paesi, parlando più lingue e abitando più culture.

Secondo l’approfondita analisi che Delfina Licata fa della situazione, risulta che il PNRR (cioè il Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza, approvato nel 2021 dall’Italia per rilanciarne l’economia dopo la pandemia di COVID-19, al fine di permettere lo sviluppo verde e digitale del Paese) “potrebbe essere lo strumento pensato per invertire il flusso del 42% di giovani tra i 18 e i 34 anni che lasciano l’Italia in maniera inesorabile”, ma a patto che non sia solamente “la defiscalizzazione il motivo attrattivo, ma un discorso più ampio di vita, di possibilità di essere assunto, di modalità di lavoro sperimentata agevolmente all’estero, ma non Italia”.

L’Italia in un anno ha perso quindi lo 0,5% della sua popolazione residente, mentre vi è stato un aumento del 2,7% degli italiani residenti all’estero. Circa i Paesi di destinazione, i dati ci dicono che sono soprattutto quelli europei a essere maggiormente attrattivi, perché è all’interno del vecchio continente che si trasferisce il 78,6% degli emigrati italiani, mentre le Americhe (principalmente quella Latina) sono la meta del 14,7% e Asia, Africa e Oceania ne assorbono il 6,7%.

L’AIRE è un buon strumento per monitorare la presenza italiana all’estero e ci permette di fare delle scoperte interessanti: mentre non è affatto curioso imparare che il Paese con il più alto numero di iscritti all’AIRE è l’Argentina (691.841) e che le Isole Cook hanno il minor numero di iscritti (1), è stupefacente leggere che un territorio minuscolo come quello de Principato di Monaco (il secondo più piccolo Paese al mondo dopo il Vaticano) ospita ben 6.803 connazionali iscritti all’AIRE.

Raffaello Gambogi (1874-1943) – Gli emigranti (1894), olio su tela.
Museo Civico Giovanni Fattori, Livorno

Lo studio ci fornisce anche le aree di provenienza dei migranti italiani: è il Sud a pagare il maggior tributo (47%), seguito dal Nord (37%), anche se le due regioni che vedono più partenze sono Lombardia e Veneto, spesso con persone che già erano migrate dal Mezzogiorno; fanalino di coda il Centro (16%).

Delfina Licata puntualizza: “Il problema è l’ignoranza di fondo di quello che è il nostro Paese, dove si sottolineano problemi che non esistono, mentre le complessità esistenti si nascondono sotto un pugno di sabbia. Da sempre siamo un popolo che emigra, fa parte del DNA del nostro Paese, ma, nonostante ciò, ancora parliamo degli arrivi in Italia come di un fenomeno straordinario”.

C’è quindi chi “fa leva su una strumentalizzazione di parti di verità e quindi lo scopo dei progetti di Migrantes è la conoscenza effettiva dei fenomeni “che deve essere insegnata anche alle scuole con numeri certi e in una lettura europea e internazionale. Una conoscenza vera, giusta, non strumentale per sapere cosa fare”, anche per invertire l’attuale curva demografica discendente, “per evitare che in un’Italia così invecchiata il futuro sia privo di forza vitale: ora è il momento del fare”.  

Emigrazione italiana per regione tra il 1876 e il 1915.

Se guardiamo indietro, vediamo che l’emigrazione è un fenomeno che ha radici antiche.

“La scelta di partire non è tanto la disoccupazione o la ricerca di un’adeguata retribuzione – aggiunge -, ma quella più grande di realizzazione delle nuove generazione, l’idea di un mondo considerato come spazio più ampio di protagonismo. La mobilità fa parte del percorso di vita, ma bisogna essere liberi di mettere a frutto quegli elementi che arricchiscono il bagaglio umano o professionale in favore dei luoghi per i quali si sente una maggiore affinità, siano un Paese altro, il proprio, il paesino o il borgo di nascita. È poi necessario un riconoscimento del percorso migratorio per chi lo sperimenta. Ora invece chi sceglie di tornare non è valorizzato, quel periodo passato in mobilità deve essere considerato un valore aggiunto”.

Conferenze in italiano a Mentone

La Facoltà di Scienze Politiche di Parigi (Science Po, come viene comunemente chiamata) ha una bella sezione a Mentone, sulla Costa Azzurra. Fondata nel 2005, è considerata il Campus mediterraneo della facoltà stessa.

Sciences Po Menton. Foto © Agence Menton.

Il Campus ospita quasi 500 studenti, la maggioranza non francesi: gli stranieri sono infatti il 70%. Vi sono anche tanti italiani.

L’italiano è una delle lingue insegnate, accanto al turco, l’arabo, l’ebraico moderno, e il persiano. I corsi sono in francese ed inglese.

L’indirizzo di studi, che comporta una formazione multidisciplinare, è rivolto alle regioni del Mediterraneo. La sede si trova  nel centro storico, in un palazzo monumentale di ispirazione italiana, accuratamente ristrutturato, in zona elevata, con vista mare, al numero 11 di Place Saint-Julien.

In questo luogo prestigioso, è stato organizzato un ciclo di conferenze sull’Italia, condotto ed animato da Marc Lazar, professore emerito di storia e sociologia politica.

Prof. Marc Lazar. Foto ISPI.

Ad inaugurare il ciclo è stato  invitato Giovanni Orsina,  professore di storia e direttore della “School of Government” alla LUISS di Roma.

Titolo della conferenza : “L’Italia alla vigilia delle elezioni del 25 settembre”.

Il professore è stato molto brillante, ha riassunto la storia recente d’Italia, con l’accento su Berlusconi, Prodi, i governi tecnici. Prevede la vittoria di Giorgia Meloni, e non sarà la fine del mondo…

In una bella intervista su Libero, il Prof. Orsina ha affermato: “La mia impressione è che Meloni abbia ben presente la parabola discendente di Gianfranco Fini. E che farà di tutto per evitarla. Certo, quando non si è più all’opposizione ma si governa, e ci si deve muovere sul confine sottile tra legittimazione e condizionamento dei ‘poteri forti‘, è tutto più difficile”.

Prof. Giovanni Orsina. Foto © Fondation Emile Chanoux

C’è “Meloni 1”, quella eurorealista, che si mette nella scia di Mario Draghi dicendosi pronta a partecipare fino in fondo al gioco europeo trattando con tutti i Paesi, a cominciare da Francia e Germania. E c’è “Meloni 2”, la paladina del conservatorismo trumpian-orbaninano, che ieri ha inviato un videomessaggio agli spagnoli di Vox. “La vera sfida per la leader di Fratelli d’Italia sarà trovare l’equilibrio fra i suoi due avatar” per evitare che uno trascini a fondo l’altro, conclude il professore.

“Meloni 2” “non può proprio piacere alle attuali leadership di Francia e Germania”, riflette ancora Orsina, osservando come le famiglie politiche di centro e sinistra a Parigi e Berlino siano “interessate a conservare le rispettive destre – Rassemblement National e Alternative für Deutschland – al di fuori del perimetro della legittimità”. Il tutto a un anno e mezzo dalle elezioni per il Parlamento europeo previste nella primavera del 2024. Destra uguale disastro economico e sociale, potrebbe essere lo schema del presidente francese Emmanuel Macron e del cancelliere tedesco Olaf Scholz.

Il secondo incontro del ciclo ha avuto luogo il 27 ottobre e il tema è stato, ça va sans dire, “l’Italia  dopo il voto”. L’invitata d’onore è Sofia Ventura, professore di Scienze Politiche alla Università di Bologna.

Prof. Sofia Ventura. Foto © Videolist.

Bolognese, si è laureata all’ Alma Mater (così è chiamata l’ Università di Bologna) e si è perfezionata a Firenze, alla scuola universitaria Cesare Alfieri, dove ha fatto il dottorato di ricerca.

Fin da studente si è impegnata in politica, area radical-liberale, e in seguito scrive saggi, collabora a riviste e giornali  di orientamento liberale di  centro destra. Al momento tuttavia può essere collocata, politicamente, al “Centro” degli orientamenti politici.

La sua lezione agli studenti di italiano è stata brillante e puntuale  improntata sui risultati delle elezioni; ne ha spiegato i flussi e le motivazioni che hanno portato al successo, in Italia, del centro-destra, che  definirebbe più correttamente  destra-centro, se non destra destra.

Tuttavia nessun pericolo di neofascismo, gli elettori di destra in Italia sono conservatori, professano la religione cattolica, sono attenti  alla difesa e tutela degli interessi nazionali a Bruxelles, ma non vogliono  uscire dalla U.E.

In Italia sono favorevoli alle autonomie  di città e regioni.

Altri incontri seguiranno nel futuro a scadenza mensile sempre sotto il titolo Viva l’Italia.

Francesi e fascismo

I Francesi guardano sempre più all’Italia, non solo apprezzando cibo e vini, ma ristudiando il Fascismo.

A proposito di cibo e vino, non tutti sanno che a Parigi vi sono circa 1.500 (millecinquecento) ristoranti italiani; non solo, ma il più grande di tutti, di qualunque nazionalità parliamo, è italiano.

Si tratta di “La felicità”, già il nome dice tutto, del gruppo Big Mamma, 4.500 metri quadrati.

Ristorante Big Mamma nel 13° arrondissement a Parigi.

Parlando di vino, i dati all’esportazione segnalano che il Prosecco comincia ad essere molto apprezzato dai Francesi.

Non è di questo tuttavia che vogliamo parlare, magari un’altra volta.

Ritorniamo all’interesse per la storia del fascismo. 

In distribuzione si trova, attualmente in Francia e nei paesi francofoni,  in tutte le edicole e librerie, il numero di febbraio/marzo 2022 del giornale Le Figaro ed il suo fascicolo della collana Histoire. Ricordiamo che Le Figaro è il più importante quotidiano di Francia, sul versante liberale e conservatore in contrapposizione a Le Monde sul fronte, diciamo, progressista. 

Non si tratta di un’opera per iniziati, ma destinata ad un vasto pubblico.

Il titolo esatto del fascicolo è “Mussolini, l’illusion fasciste”, ed è introdotto dal direttore del periodico, Michel De Jaeghere, giornalista autorevole, storico e studioso. Le sue conclusioni sul tormentato periodo sono ispirate dai giudizi espressi in Italia dal grande storico Renzo De Felice.

Riportiamo qui uno stralcio del suo scritto, dando per scontato che i lettori di questo blog leggano il francese. 

“… le fascisme historique. Les historiens marxistes ont prétendu le réduire à l’utilisation, par les classes possédantes, de bandes de voyous pour faire obstacle à la révolution prolétarienne, bientôt consacrée par le ralliement des forces réactionnaires, l’armée et l’Eglise catholique, à une dictature. Le chercheur israélien Zeev Sternhell a vu en lui la résurgence de la pensée contre-révolutionnaire française, telle qu’elle s’était radicalisée avec Maurice Barrès à l’occasion de l’affaire Dreyfus.

Le grand historien italien Renzo De Felice a montré au contraire qu’il fut d’abord une révolution anthropologique et culturelle parente du jacobinisme, visant à remédier à la dissolution des structures sociales traditionnelles sous les coups de boutoir de l’individualisme par la mise en œuvre d’une communauté révolutionnaire: celle des hommes nouveaux groupés autour du parti unique et mis au service d’un État chargé de donner un organe et une âme à l’aspiration naturelle de l’homme à vivre une aventure collective. Qu’il ne relevait nullement du désir contre-révolutionnaire de revenir au passé, à la société organique, aux liens traditionnels, mais de la volonté de construire une communauté nationale unie et hiérarchisée sur le modèle d’une armée en bataille.”

Copertina di febbraio/marzo 2022 del supplemento “Histoire” del giornale Le Figaro.

Il saggio ripercorre la storia del movimento fascista, nelle sue  articolazioni, sottolineando i vari aspetti del rapporto con la monarchia sabauda e la chiesa cattolica. Il regime fascista non riuscì mai ad essere globalmente totalitario, perché aveva dovuto convivere con altri poteri costituzionali.

La improvvida alleanza col nazismo lo portò ad estremi che determinarono la sua rovina.

Nel volume vengono passati in rassegna i libri recenti apparsi numerosi in questo periodo e nel contempo vengono approfonditi i vari aspetti del regime. La storia  viene narrata da Philippe Foro, specialista dell’Italia contemporanea, dell’Università di Tolosa, autore di “L’Italie fasciste” e di “Dictionnaire de l’Italie fasciste”

Michel Ostenc, professore dell’Università di Angers, che ha insegnato anche a Perugia e Genova, ci parla dei rapporti di famiglia di Mussolini. “Ciano, le gendre de Mussolini”, “Mussolini. Une histoire du fascisme italien”.

Altro autore che scrive sulle le relazione che il fascismo ebbe con Chiesa, monarchia, partito ed altro è Frédéderic Le Moal, professore al Liceo militare di Saint-Cyr e autore dei volumi “Histoire du fascisme” e di “Victor Emmanuel. Un roi face a Mussolini”, editore Perrin.

Benito Mussolini tentò perfino di ricostruire Roma, per adeguarla ai sogni imperiali. Ne scrive Alexandre Grandazzi, professore alla Sorbonne. Secondo questo autore gli architetti ligi al regime furono presi da un vero delirio nel volere sventrare e ricostruire Roma. Per fortuna  fu lo stesso Mussolini che intervenne per  limitare i danni, e porre dei limiti.

Da leggere è, dello stesso Grandazzi, “Urbs, Histoire de la ville de Rome”, (Perrin 2017). 

Procediamo ancora con la segnalazione dei vari volumi sul Fascismo apparsi di recente.

George-Henri Soutou, professore emerito alla Sorbonne, ha scritto “Europa!” (Editore Taillandier) in cui descrive  i progetti  di Mussolini e Hitler per rifare la geografia del continente, una volta diventato nazi-fascista. 

Didier Musiedlak descrive con un brillante articolo quando il Fascismo crollò come un colosso dai piedi di argilla, in poche ora, fra lo stupore di tutti, a seguito del voto negativo ricevuto nella sedi più elevati dello stesso partito fascista.

Didier Musiedlak è professore emerito alla Università di Parigi-Nanterre, grande specialista di cose italiane, è autore di “Mussolini” (Presse de Science Po). Viene annunciato un suo nuovo libro, in uscita nel marzo prossimo: “La marche sur Rome, entre histoire et mythe” (Presse de sciences Po)

Eric Vial, anche lui specialista  dell’Italia contemporanea, (ma quanti sono!)  ha scritto un libro che descrive chi furono gli altri personaggi del regime e dell’epoca, “Guerre, société et mentalité. L’Italie au premier XXe siècle” (Editeur Seli Arslan).

Come riepilogo il fascicolo si conclude con una rassegna dei tanti libri apparsi sull’argomento, non li ricordiamo tutti ma concludiamo segnalando un’opera singolare, scritta da un italiano direttamente in francese: “Le  Mystère Mussolini” (Perrin 2021).

Il  libro non è una biografia di Mussolini, ma il tentativo di mettere in luce un caso che continua a pesare sulla coscienza degli italiani a più di settant’anni dalla caduta del fascismo: il caso di un uomo che fece di tutto per restare indecifrabile e divenne, in tal modo, un simbolo delle peggiori passioni collettive.

Attraverso un’ampia e rigorosa documentazione, Maurizio Serra esamina  gli aspetti della vicenda politica e umana di Mussolini: ne indaga le pulsioni profonde, le scelte (e non scelte), le affermazioni e i comportamenti che si sono  poi riverberati sul destino dell’Italia.

Nato a Londra nel 1955, diplomatico con una brillante carriera ha rappresentato l’Italia a Berlino Ovest e a Mosca ai tempi dell’Unione Sovietica, è stato ambasciatore all’Unesco a Parigi  e all’Onu a Ginevra, scrittore e saggista. Tra i suoi libri, spiccano le biografie degli scrittori Curzio Malaparte, per il quale ha vinto il Premio Goncourt per la biografia, Italo Svevo e Gabriele D’Annunzio.

Nel 2018 ha ricevuto il Prix Fondation Prince Pierre de Monaco.

Il 9 gennaio 2020 Maurizio Serra viene eletto all’Académie française. È il primo Italiano a ricoprire la prestigiosa carica a vita dell’istituzione culturale di Parigi.