Riflessioni oziose sul vino

Il vino è cultura, storia, tradizione, identità, ma l’insensibilità di  molti parlamentari europei ha rischiato di disperdere tutto questo; per fortuna il pericolo è stato sventato.

Riassumiamo citando la stampa di settore; parliamo di fatti successi in piena pandemia e prima dell’inizio della guerra.

Altri interessi hanno attirato il pubblico, ma qui ne vogliamo parlare. Difendere il vino è anche un modo di difendere i valori di una Europa autentica.

“È stato respinto il tentativo di demonizzare il consumo di vino e birra attraverso allarmi salutistici in etichetta già adottati per le sigarette, l’aumento della tassazione e l’esclusione dalle politiche promozionali dell’Unione Europea, nell’ambito del Cancer Plan proposto dalla Commissione Europea”.

“C’è differenza tra consumo nocivo e moderato di bevande alcoliche e non è il consumo in sé a costituire fattore di rischio per il cancro”.

È questa una delle modifiche alla relazione sul Piano di azione anti-cancro approvate martedì 15 febbraio 2022 dall’Europarlamento.

Dal testo è stato cancellato anche il riferimento ad avvertenze sanitarie in etichetta, e introdotto l’invito a migliorare l’etichettatura delle bevande alcoliche con l’inclusione di informazioni su un consumo moderato e responsabile di alcol.

“Il Parlamento Europeo salva quasi diecimila anni di storia del vino le cui prime tracce nel mondo sono state individuate nel Caucaso mentre in Italia si hanno riscontri in Sicilia già a partire dal 4100 a.C”, afferma il presidente della Coldiretti Ettore Prandini nel ringraziare per il lavoro di squadra i parlamentari italiani per la difesa di un settore che vale 12 miliardi di fatturato (dei quali 7,1 miliardi di export) e offre direttamente o indirettamente occupazione a 1,3 milioni di persone secondo l’analisi della Coldiretti.

L’esistenza della straordinaria scoperta archeologica del vino in Sicilia in tempi così remoti merita qualche approfondimento. È stato prodotto sotto il sole della Sicilia, quasi 6.000 anni fa, il vino più antico d’Italia e di tutto il Mediterraneo occidentale: i residui sono stati individuati in una giara dell’Età del Rame rinvenuta in una grotta del Monte Kronio, a Sciacca, in provincia di Agrigento. A condurre le analisi è stato un gruppo internazionale di ricerca coordinato dall’archeologo Davide Tanasi dell’Università della Florida Meridionale (già coordinatore dei recenti scavi a Villa Romana), a cui hanno preso parte anche il Consiglio nazionale delle ricerche (Cnr), l’Università di Catania e gli esperti della Soprintendenza ai Beni Culturali di Agrigento. La scoperta, pubblicata su Microchemical Journal e rilanciata dall’ANA (Associazione Nazionale Archeologi), dimostra che la viticoltura e la produzione di vino in Italia sono più antiche del previsto: non sarebbero cominciate nell’Età del Bronzo, come ipotizzato finora, bensì quasi 3.000 anni prima.

Il ritrovamento in Sicilia di giare contenenti i resti del vino più antico d’Italia. Foto © Comunicalo.it

“Ricerche precedenti avevano rinvenuto in Sardegna dei semi di Malvasia datati tra il 1.300 e il 1.100 a.C., ma questi reperti attestano solo la pratica della viticoltura. La nostra ricerca, invece – spiega Tanasi – identifica i residui della fermentazione, che implicano non solo la viticoltura, ma anche la produzione vera e propria del vino”. Le tracce di acido tartarico e dei suoi sali ritrovate nella giara non permettono di sapere se quell’antichissimo vino era rosso o bianco. Anche l’identikit dei suoi produttori non è ancora ben definito: “Sappiamo che questi territori erano abitati da comunità di agricoltori e allevatori, in cui iniziava a prendere piede la produzione tessile – precisa l’archeologo – mentre non abbiamo grandi evidenze di metallurgia”.

Certo, avere una tradizione così antica legata al vino fa dell’Italia una terra di elezione er questo nettare degli Dei. Abbiamo forse più “diritti” degli altri di parlare del vino e di scrivere libri. Infatti la produzione letteraria vinicola italiana è di tutto rispetto.

L’importanza della letteratura enologica, agronomica e viticola in terra italica, a partire dal secolo XIV e soprattutto in quelli successivi, è davvero rilevante. Naturalmente non è pensabile parlare dei libri che si occupano di vino senza fare riferimento ad alcuni elementi tra loro strettamente collegati: lo sviluppo delle tecniche agrarie, del pensiero e delle competenze scientifiche (e del nuovo veicolo comunicativo rappresentato dai caratteri a stampa grazie all’adattamento di un torchio da vino), da cui il maggior potere entro le corti, non senza conflitti col potere temporale papale e laico, degli scienziati; i cambiamenti nell’organizzazione sociale e l’emergere di nuovi ceti produttivi; il potere medico (diversi dei trattatisti di enologia sono ancora medici secondo l’antica tradizione e ciò a significare non solo l’uso del vino nella farmacopea, come già evidenziato nel capitolo precedente, ma anche lo stretto connubio tra piacere e cura di cui l’arte medica e il potere derivante sono ancora pienamente titolari); la concezione del bello e del buono, soggetta a nuovi canoni interpretativi, che si fa strada tra le arti e nella gastronomica.

Occorre cominciare la narrazione dal Ruralium commodorum libri XII di Pier de’ Crescenzi, scritto nel 1305 circa, che viene dedicato a Carlo II d’Angiò, re di Sicilia (detto lo Zoppo, 1254-1309): diffuso come manoscritto in 109 copie, ha la prima edizione a stampa soltanto nel 1471. Poi alcune altre edizioni ravvicinate a fine Quattrocento: In commodum ruralium cum figuris libri duodecim, Speier, Peter Drach, c. 1490-1495; De Agricultura, Venezia, Matheo Capcasal, 1495. E di altre ancora nel Cinquecento: P. Crescenzi, De’ Opera di agricoltura. Ne la qual si contiene a che modi si debbe coltiuar la terra, seminare inserire li alberi, gouernar gli giardini e gli horti, la proprieta de tutti i frutti*, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona vercellese, 1536; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano de Lexona, 1528; Id., Opera d’agricoltura, in Venegia, per Bernardino de Viano, 1538; Id., De omnibus agriculturae partibus, & Plantarum animaliumq; natura & utilitate lib. XII*…, Basileae, per Henrichum Petri, 1548.

L’incipit del libro di Piero de’ Crescenzi.

Le diverse ristampe di un testo divenuto classico indicano l’interesse crescente verso la formazione agronomica e la possibilità della sua diffusione oltre un mero ambito specialistico o di rappresentanza politica. Ed è proprio attraverso de’ Crescenzi che vengono ristampate le opere latine di riferimento dell’autore: Catone, Varrone, Columella* e Plinio il Vecchio*.

I libri citati sono reperibili alla Libreria Antiquaria Emporium.

Con un piccolo balzo in avanti non si può non menzionare lo scritto di Agostino Gallo, il più importante agronomo del tempo il quale pubblica, nel 1564, a Brescia, le Dieci giornate dell’agricoltura e de’ piaceri della villa*: «a questa seguirono tre edizioni veneziane tra il 1565 e il 1566. Nel 1566 dall’officina del veneziano Nicolò Bevilacqua uscì una versione notevolmente ampliata, dal titolo Le tredici giornate; nel 1569 uscì dapprima, sempre a Venezia ma questa volta dalla tipografia di Grazioso Percaccino, un’appendice autonoma intitolata Le sette giornate dell’agricoltura, destinata a confluire, in quel medesimo anno, nell’unico volume de Le vinti giornate dell’agricoltura*. Questa fu l’edizione definitiva e servì da base per tutte quelle successive, che finirono per dare vita ad una vicenda editoriale di assoluto rilievo nel panorama italiano di quell’epoca: dodici edizioni nel corso del XVI secolo (nove a Venezia, due a Torino ed una a Brescia); sei del XVII secolo (tutte a Venezia); quattro del XVIII secolo (a Bergamo, Brescia, Cortona e Roma). L’opera ebbe grande successo oltre che a Brescia e Venezia, anche sul territorio milanese e quello veneto: si ha infatti notizia di contratti di vendita sottoscritti dal figlio di Agostino, Mario Gallo, con librai di Milano, Pavia, Bergamo, Bologna, Piacenza, Verona e Vicenza». Nelle Giornate dell’agricoltura si trovano citazioni e riferimenti a tutti gli autori “canonici” della classicità greco-latina, assieme a quelli della tradizione medievale e della prima età moderna (Pier de’ Crescenzi su tutti, ma anche Arnaldo da Villanova, Dante, Petrarca e Boccaccio). In secondo luogo, l’opera del Gallo è l’unica ad essere tradotta, ancora nel Cinquecento, in una lingua diversa da quella d’origine (francese) e ad essere divulgata nella stessa Francia attraverso più edizioni consecutive.

Più modestamente, e con tutte le differenze del caso, anche chi scrive si cimenta nella stesura di un libro sul vino. È un’opera accessibile a tutti, scritta per dare le basi anche a chi ha poche conoscenze sul vino, per potere scegliere, analizzare ma soprattutto abbinare correttamente i vini ed i cibi. Per la gioia (lo spero) dei miei cari lettori del blog pubblicherò nel tempo piccoli pezzi del libro, che ritengo interessanti e stimolanti, soprattutto sul versante storico e culturale. Il lavoro è intitolato “Vino, parliamone”.

E per farvi sorridere, ecco una citazione celebre: 

“Monsieur, quand on a l’honneur de se faire servir un tel vin, on prend son verre avec respect, on l’observe, on le hume longuement, puis l’ayant reposé…

Et après, interrompt l’impatient, on le boit?

Non, Monsieur, pas encore! Après on repose le verre de vin sur la table, l’on en parle“.

(Charles Maurice de Talleyrand, proprietario di Château Haut-Brion). Talleyrand fu quel noto personaggio politico francese, protagonista del Congresso di Vienna del 1815. Château Haut-Brion è un grande nome che fa parte dell’aristocrazia del vino di Bordeaux, cru classé dal 1855, denominazione Pessac-Léognan, nella regione del Graves.

Château Haut-Brion.

Traduciamo, liberamente:

“ – Signore, quando si ha l’onore di farsi servire un vino così, si prende il bicchiere con rispetto, lo si guarda, lo si annusa a lungo, poi dopo averlo riposto….

– E dopo – interrompe l’impaziente – lo si beve?

– No, signor mio, non ancora. Dopo avere riposto il bicchiere sul tavolo, se ne parla”.

Se ne parla e poi si beve, o meglio, lo si degusta e poi se ne parla ancora.

Altra citazione degna di nota, visto la fama del personaggio (Edoardo VII, sovrano inglese dal 1902 al 1910, figlio della Regina Vittoria: era nato nel 1841) è la seguente: “Il vino non si beve soltanto, lo si annusa, lo si osserva, si sorseggia e…..se ne parla”.

Scene di vendemmia, dal Libro “Tacuinum Sanitatis”, 1450.

Fra i tanti libri sul vino, uno spazio importante viene dato alla degustazione e si spiega diffusamente come iniziarsi all’arte dell’assaggio, un modo per avvicinarsi alla conoscenza della materia. Il vino prima lo si guarda e si osservano con attenzione le varie declinazioni del colore, poi lo si annusa (i francesi dicono “on hume”), mettendo in azione l’odorato per riconoscere i profumi. I sensi – vista, odorato, gusto – sono così soddisfatti e si procede ad una ricognizione materiale del vino. Manca l’udito, ma a questo si rimedia facendo tintinnare i bicchieri.

 A volte si aggiunge una parola – “Salute” – come augurio; esortazione al benessere per ricordarci che anticamente il vino è stato anche considerato una medicina. Nel famoso e pluri-stampato opus “La Schola Salernitana” troviamo una regola per mantenere la buona salute che ci trova totalmente d’accordo: “Se non vuoi avere problemi, comincia ogni pranzo con un bel bicchiere di vino”.

Il vino tuttavia non coinvolge solo i sensi, ma anche il cervello e il cuore. François Rabelais scrisse: “Le vin est ce qu’il y a de plus civilisé au monde”. C’è tanta cultura nel vino, che è un segno della nostra identità; coinvolge la religione, la storia e la geografia, la letteratura e la poesia.

La nebbia agli irti colli / Piovigginando sale / E sotto il maestrale / Urla e biancheggia il mar;  / Ma per le vie del borgo  / Dal ribollir de’ i tini  / Va l’aspro odor dei vini  / L’anima a rallegrar.

(Giosuè Carducci: Rime nuove, San Martino 1861/1887).

Prosciutto e melone: un classico piatto estivo. Che vino abbinare?

Divagazioni su abbinamenti fra cibo e vino.

Abbiamo un veloce piatto estivo, di quelli che funzionano sempre in tante occasioni. Che piace molto, eccellente quando i prodotti sono di qualità. Con che cosa lo beviamo?  Ad un piatto così  ci vuole un abbinamento adeguato, naturalmente. Si tratta ora di scegliere quello giusto.

La cosa  sembra molto semplice; ma non è così: vediamo, cosa ne pensano a gli esperti.

Prima di tutto si deve valutare la struttura del cibo, che nel nostro caso sarà leggera, pertanto anche il vino dovrà essere leggero, molto leggero. Poi conviene sempre pensare alla principale caratteristica del piatto, che tende al dolce ed è anche aromatico. Tendenza dolce perché il melone è, per l’appunto, dolce e pure il prosciutto crudo può vagamente esserlo (dipende dalla tipologia ovviamente), e poi c’è l’aromaticità perché entrambe le materie prime di cui è composto il piatto sono molto profumate. Non si tratta di un piatto del sud-est asiatico, ma comunque l’aromaticità è buona.

Ora la domanda: occorre il gusto del tannino? Direi di no, non ci sono intingoli da asciugare o grasso da pulire. No, meglio niente tannino, quindi nessun rosso. Serve uno spumante? Ancora di no. Infatti non c’è nessuna parte del piatto che occorre sgrassare con l’aiuto dell’effervescenza. Tolti i rossi per via del tannino e gli spumanti per via delle bollicine, rimangono i vini bianchi fermi e i rosè. Non è che il campo si sia ristretto di molto, però continuando a ragionare lo definirei ancor meglio. Abbiamo detto bassa struttura e buona aromaticità.

 Queste caratteristiche completano, se non del tutto, in buona parte il quadro: ci occorre un bianco leggero (non troppo) e profumato, con una buona acidità che contrasti la tendenza dolce. Bianco, leggero, acido, profumato, ecco l’identikit del nostro vino. Come si può capire non sono pochi quelli che rispondono a questa descrizione, a riprova che l’abbinamento cibo vino non è così vincolante come lo si presenta a volte: fra i tanti vini disponibili  sceglieremo il Pinot Bianco.

Uva di Pinot Bianco.

Cosa dicono “gli altri”?

I francesi tuttavia la pensano in maniera diversa: dal già citato “Figaro vin” leggiamo.

“Le melon me semble d’instinct appeler un vin blanc doux. Très appréciée de nos grands-parents, l’alliance avec le Porto n’est pas aussi judicieuse qu’il y paraît de prime abord : sauf à tomber par hasard en même temps sur un melon exactement mûr et un porto jeune et déjà complexe, l’un dominera forcément l’autre. En revanche, le mariage melon-jambon cru – sucre contre sel – constitue une entrée très agréable.

 Et je l’escorterais volontiers d’un blanc demi-sec comme ceux qu’on trouve dans la Vallée de la Loire, du côté de Montlouis ou de Vouvray : leur fruité et leur bouquet légèrement exotique sauront tenir tête à l’intensité aromatique du melon. Tandis que le sucre résiduel présent dans les vins épousera naturellement la douceur de l’assiette. Dans cette région-là, j’ai un faible pour les vins que produit François Chidaine en son Clos du Breuil : ses montlouis demi-secs Les Tuffeaux (tout en rondeur) et Clos Habert (tout en saveurs) non seulement s’épanouiront sur le melon, mais de surcroît mettront l’assiette en valeur”. La traduzione più avanti.

A scrivere è Enrico Bernardo, italiano di nascita che ha un ristorante a Parigi, miglior sommelier del mondo nel 2004. Diventato molto francese nei gusti del vino. Il suo ristorante di Parigi si chiama “Il vino” .

Ebbene, dice che d’istinto quando si parla  di vino per il melone gli viene in mente un vino bianco dolce. Certo, la scuola classica suggeriva il Porto, ma Bernardo ritiene (giustamente) che l’effetto finale sia coprente, e dunque niente.

Se in tavola c’è prosciutto e melone – “zucchero contro sale”, annota il sommelier – meglio cercare un blanc demi-sec di quelli che fanno nella Valle della Loira, a Montlouis o a Vouvray.

Concordiamo  con Bernardo, si tratta di vini favolosi, e con quel loro profumo vagamente esotico col melone ci stanno benone.

Se invece il melone arriva per dessert, la soluzione è in un Muscat “vendange tardive” dell’Alsazia.

Siamo d’accordo. Ma se volessimo bere italiano? Citiamo ora Angelo Peretti, giornalista, che anima il blog “The internet Gourmet”

“Provo a rispondere io. E dunque, con l’abbinata prosciutto e melone in genere io mi oriento verso un rosé, ma di quelli chiarissimi di colore, e quindi neppure minimamente toccati da vene di tannicità. Insomma, mi allontano dal dolce e preferisco cercare il sale del prosciutto. Oppure, se volessimo seguire l’esempio della Loira, perché non metterci un Moscato d’Asti che abbia qualche anno di affinamento in bottiglia? Sì, certo, il Moscato d’Asti – quello buono – invecchia che è un piacere. Un piacere, proprio.”

Se ci rivolgiamo ad un esperto americano abbiamo un’altra risposta: il Riesling è perfetto sia esso leggermente secco o leggermente dolce. Va pure bene il Moscato d’Asti, schiumoso e frizzante.Però se lo preferite potete provare  un rosato secco, sarebbe perfetto, ma anche un Beaujolais, un pinot nero leggero andrebbero bene per fare risaltare il prosciutto.

(Riesling is a perfect foil for this appetizer, in softly-dry to softly-sweet styles. Moscato d’Asti is light, frothy, fresh and crisp and would be a delightful sip. If you prefer, a dry Rosé would be perfect, or try a Beaujolai gamay or lighter pinot noir to set off the Prosciutto).

La domanda che ci facciamo a questo punto è la seguente: per un piatto così banale quante storie per trovare un vino che vada bene.

Avete detto banale?

Leggete questo scritto, di Liana Marabini, apparso, in francese nel sito “Cuisine et Histoire” .

Alla fine di queste divagazioni l’altra domanda è : con cosa berrebbe con prosciutto e melone, l’autore di queste note?

Acqua, per non alterare il raffinato equilibrio di sapori del prosciutto e melone. Siccome è un antipasto sceglierò un vino che va bene coi piatti che seguiranno.

Monte-Carlo & Montecarlo. Oppure : “l’altra Montecarlo”

Monte-Carlo nel Principato di Monaco.
Montecarlo in Toscana. Foto © TuscanyPeople.

Se ricerchiamo, su Wikipedia Italia, Montecarlo, spunta  Montecarlo, comune italiano in provincia di Lucca. Infatti anche in Italia, come vediamo c’è una Montecarlo, scritta però tutto attaccato senza trattino.  

Da una rapida ricerca impariamo che si tratta di un borgo con poco più di 4.000 abitanti, che si chiamava anticamente Vivinaia e che ha cambiato nome, anche lui, in onore di un re Carlo (in questo caso parliamo di di Carlo IV di Lussemburgo). Questo succedeva nel 1331, in pieno Medioevo, quando il territorio dove si trovava Vivinaia era terra contesa fra Firenze, Lucca e Pisa.

Carlo IV di Lussemburgo. Foto © Liamar Multimedia.

Per arrivarci, da Monte-Carlo, si devono fare quasi 350 chilometri, uscire dalla autostrada ad Altopascio, e proseguire in strade minori. Il paesaggio per un certo periodo non è molto attraente, come di solito è la Toscana, per la vasta presenza di piccole aziende, capannoni, fabbricati industriali.

Poi tutto cambia quando si arriva ad imboccare la strada dell’Olio e del Vino. Si arriva infine nel borgo antico sovrastato da un imponente castello, la fortezza del Cerruglio.

Fortezza del Ceruglio. Foto © Fondo Ambiente Italiano.

Da quelle parti si fa anche un vino, il Montecarlo DOC, sia bianco che rosso.

Il rosso si fa con Sangiovese, vitigno principale, combinato anche con  con Merlot e o Shiraz.

Il bianco ha come vitigno principale il Trebbiano toscano, in abbinamento con Roussanne, Semillon, Pinot bianco, Pinot grigio. 

Vini dell’Azienda Buonamico di Montecarlo. Foto © buonamico.it

Avete letto bene, vitigni toscani con vitigni francesi: questa è la particolarità  dei vini di Montecarlo (Toscana).

Nella seconda metà dell’Ottocento un viticoltore locale andò in Francia, fece un lungo giro ed importò le piantine dei vitigni francesi, cento anni prima dei “supertuscan”.

La cartina da www.quattrocalici.it

Foto © Quattrocalici.it

Il vino nella Bibbia

di Liana Marabini*

Parlare del vino nella Bibbia significa anche fare una panoramica della storia del vino in Terra Santa. Perché la terra di Gesù è una terra di vini. 

L’antica terra di Canaan è culla e luogo di diffusione della coltivazione della vite, ben due millenni prima che la cultura del vino arrivasse in Europa. L’antico Egitto veniva rifornito di vino proveniente dal Canaan già nella prima e nella tarda Epoca di bronzo. Numerose anfore di vino del Canaan sono state scoperte ad Abydos, in Egitto, all’interno delle tombe reali di Umm el-Qa’ab del primo periodo dinastico dell’Egitto (3100 a.C. circa), suggerendo che il vino di Canaan fosse una parte cruciale dei banchetti d’élite.

Le radici bibliche della viticoltura risalgono a 3000 anni a.C. Nella Bibbia troviamo un insieme di regole da compiere per potere coltivare una vigna e la parola “vino” appare 190 volte (il Messia stesso viene paragonato alla vigna).

Geograficamente Israele si è trovato in un crocevia importante, tra Mesopotamia ed Egitto, al centro della strada percorsa dai commercianti di vino che hanno favorito la diffusione delle pratiche di produzione.

Il periodo Romano ha fatto della Giudea e delle città portuali di Ashkelon e Gaza dei centri vitali per la produzione del vino. Per gli Ebrei il vino rappresentava non solo una bevanda, ma un elemento delle celebrazioni religiose e un medicamento. (Per estensione, è ciò che il caffè è per i musulmani ed il tè per i buddisti).

L’importante tradizione vitivinicola della regione svanisce durante il dominio musulmano della Terra Santa: gli ottomani, per i quali era proibito bere vino, continuarono a coltivare le vigne, ma solo per l’uva da pasto. Per qualche secolo la vinificazione cessò. In quel periodo molti vitigni autoctoni scomparvero. 

I Crociati tentarono di re-impiantare delle vigne nei secoli XII e XIII, ma il lavoro si dimostrò più difficile del previsto: erano lì come soldati, non come agricoltori e la vigna richiedeva cure costanti. Perciò semplificarono le cose “importando” i vini dall’Europa. 

Passarono cinque secoli prima di assistere ad un rinnovo radicale della viticoltura in Terra Santa. Il 1848 è un anno importante, perché Rabbi Itzhak Shorr costruì la cantina di Zion a Gerusalemme.

Nel 1852 fu la volta di Rabbi Abraham Teperberg che non solo creò una nuova cantina ma fondò anche una scuola di agricoltura nei pressi di Giaffa. Originariamente chiamata Efrat, la cantina si sviluppò nella Città Vecchia di Gerusalemme a partire dal 1870: in quell’anno Abraham Teperberg fu affiancato da suo figlio, Zeev. Il nome ”Efrat” era basato sul biblico “Efrata shehi Beit Lechem”, la strada attraverso la quale le uve venivano portate in cantina

Qualche anno più tardi, nel 1882, fu avviato un progetto più rappresentativo, la Carmel Winery, una cooperativa che ebbe come fondatore il barone Edmond de Rothschild, leggendario banchiere, filantropo e collezionista d’arte, nonché vignaiuolo bordolese di origine ebraica, che contribuì molto allo sviluppo dell’attività vinicola in Israele. Il barone finanziò importanti iniziative vitivinicole in Terra Santa con lo scopo di farla diventare il cuore produttivo dei vini Kosher per gli ebrei di tutto il mondo. Sfortunatamente un’ondata di caldo bruciò il primo raccolto e l’arrivo della fillossera decimò le vigne, ma poi tutto rientrò nell’ordine nei decenni successivi, con tanta passione e molti investimenti. 

Nella seconda metà del XX secolo, precisamente nel 1982, nasce la Golan Heights Winery, che aveva come principio produttivo il vino di qualità a prezzi accessibili. Il merito va al Professor Cornelius Ough, della California University, che dopo diversi sopralluoghi e analisi del terreno, indicò le alture del Golan come luogo ideale per la coltivazione delle viti. Vi erano riunite tutte le condizioni: posizione, clima e altitudine.

Questa cantina ha il merito di avere fatto da battistrada per una grande, nuova tradizione vitivinicola: perché la Terra Santa è paradossalmente il più antico e il più giovane Paese vitivinicolo al mondo. 

La Golan Heights Winery ha vinto, con i suoi vini, per tre volte la medaglia d’oro del miglior vino al Vinitaly di Torino e, con altre cantine israeliane, è titolare di diversi premi al Concours Mondial di Bruxelles.

Oggi in Terra Santa ci sono più di 300 cantine; i loro vigneti (per tre quarti di uve rosse e un quarto bianche) si estendono su 6.200 ettari e producono in media 350.000 ettolitri di vino all’anno.

I vini bianchi vincitori di tanti premi sono Chardonnay, Sauvignon Blanc e Riesling, Roussanne, Viognier, Colombard, Gewürztraminer, Grenache blanc, mentre i rossi sono: Cabernet, Merlot, Barbera, Mourvèdre, Syrah e Carignan. A questi vanno aggiunti due interessantissimi vitigni autoctoni: Marawi e Argaman.

La Terra Santa presenta una notevole variabilità di zone e climi, con alcune macro aree come la Galilea, la Samaria, il Samson, le Colline della Giudea e il deserto del Negev, ciascuna con microclimi molto variabili, anche ogni 2 o 3 km. Si passa dal mare alle montagne, con incursioni tra valli e deserto. Tutto il vino è rigorosamente kosher.

Vorrei anche segnalare una realtà degna di nota, nella quale sono coinvolti dei talenti italiani, come l’enologo Riccardo Cotarella, di fama internazionale: si tratta della Cantina Cremisan, retta dai Salesiani, che è unica nel suo genere. Qui il vino è prodotto da cristiani, ebrei e musulmani, esattamente come all’inizio, nel 1885, quando Don Antonio Belloni, missionario in Terra Santa, impiantò le prime vigne sui terreni di un monastero bizantino del VII secolo, nella valle di Cremisan, 850 metri sul mare a poca distanza da Betlemme. Il monastero e la relativa cantina si trovano nella cosiddetta zona C, territorio palestinese sotto amministrazione israeliana. Qui la vita non è facile. Ci sono muri altissimi che dividono gli arabi dagli ebrei, limitando la circolazione stradale; ovunque ci sono dei check point, bisogna esibire spesso i documenti percorrendo Betlemme il cui sindaco è cristiano: pur essendo questa una minoranza è ritenuta però capace di garantire un equilibrio pacifico. Queste persone di diverse religioni e culture,  che collaborano giornalmente tra loro per produrre vino, costituiscono la forza vitale delle Cantine Cremisan. Per quanto riguarda i vitigni, solo il 2%  delle uve è di proprietà dei salesiani,  il restante viene dai contadini locali di Beit Jala, Beit Shemesh e l’area di Hebron. Qui tradizionalmente si fa un vino che si chiama “Messa”, che viene usato per la consacrazione (bianco per i Cattolici e rosso per gli Ortodossi). Vitigni internazionali come il Cabernet Sauvignon e Chardonnay sono coltivati da tempo ma i vitigni locali come il Dabouki e l’Hamdani, Jandali e il Baladi sono i vitigni privilegiati per i vini di punta. “Star of Bethlehem” è la linea che sottolinea la località di produzione, in due versioni, bianca e rossa. 

Tornando alla Bibbia, la tramutazione dell’acqua in vino, conosciuta anche come miracolo delle nozze di Cana, è il primo miracolo di Gesù, compiuto durante un matrimonio a Cana di Galilea. L’episodio è descritto nel Vangelo secondo Giovanni (2:1-11).

Nell’Ultima Cena, Gesù ha istituito l’Eucaristia, usando gli elementi del pane e del vino nel contesto del pasto pasquale: “Mentre mangiavano, Gesù prese del pane e, dopo aver detto la benedizione, lo spezzò e lo diede ai suoi discepoli dicendo: «Prendete, mangiate, questo è il mio corpo». Poi, preso un calice e rese grazie, lo diede loro, dicendo: «Prendete, e bevetene tutti: questo è il calice del mio sangue per la nuova ed eterna alleanza, versato per voi e per tutti in remissione dei peccati. Fate questo in memoria di me»” (Matteo 26:26-28). Queste due frasi evidenziano la ricchezza simbolica del calice e del vino sui quali, non senza ragione, vengono pronunciate le parole dell’istituzione con una formula più articolata di quella pronunciata sul pane così da far emergere il fondamentale significalo sacrificale dell’eucaristia. Il calice e il vino trovano ampio spazio nel linguaggio di Gesù quando parla del suo regno e del suo sacrificio per sigillare la nuova ed eterna alleanza. “Non si mette vino nuovo in otri vecchi” (Matteo 9:17). “Potete bere il calice che io sto per bere?” (Matteo 20:22).

San Giovanni Paolo II con il calice della Messa. Foto© Pinterest.

Il Salvatore nobilita il vino e gli conferisce un valore transcedentale, facendolo diventare un aggregatore di simboli, un coagulo di cultura materiale e immateriale, un ponte accessibile verso la fede. La nostra fede.

  • Liana Marabini è produttore di cinema, editore, storica dell’alimentazione, scrittrice, mecenate, nonché mia diletta moglie. Pubblicherò ogni tanto articoli da lei scritti, usciti già su altre testate giornalistiche con le quali collabora. Questo articolo è stato pubblicato già sulle pagine della Nuova Bussola Quotidiana a gennaio 2021.