Sognando l’Africa

di Anna Bono

Kuki a casa.

Per qualcuno, e forse per molti, Kuki Gallmann è un personaggio di fantasia, la protagonista di un bel film del 2002, Sognando l’Africa, interpretato dall’attrice Kim Basinger. Ma Kuki invece esiste, è una persona reale. È italiana, nata a Treviso, e vive in Africa da 50 anni, da quando cioè nel 1972, all’età di 29 anni, si è trasferita con il marito Paolo e con il figlio, il piccolo Emanuele nato da un precedente matrimonio, in una tenuta di 100.000 acri acquistata in Kenya: il Ranch Ol ari Nyiro, situato a nord della capitale Nairobi, sul bordo orientale della Rift Valley. 

È li che Kuki abita anche adesso, insieme alla figlia Sveva. Paolo ed Emanuele invece non ci sono più. Paolo è morto nel 1980. Era andato sulla costa a ritirare una culla di legno intagliato commissionata a un artigiano locale per Sveva che stava per nascere. È deceduto in un incidente d’auto sulla strada Mombasa-Nairobi. Tre anni dopo è morto anche Emanuele, che aveva solo 17 anni, ucciso dal morso di un serpente velenoso. Nel loro ricordo Kuki ha istituito l’organizzazione no profit Gallmann Memorial Foundation.  

Kuki e Sveva

Kuki e Sveva hanno fatto di Ol ari Nyiro una riserva faunistica, la Mukutan Conservancy, dove vivono centinaia di elefanti, bufali, zebre, antilopi e gazzelle; e ancora, ghepardi, leopardi e leoni – i grandi predatori della savana – e innumerevoli varietà di uccelli. La riserva è aperta ai visitatori ai quali si offrono le emozioni dei game safari su jeep e a piedi. Per ospitarli è stato costruito il Mukutan Retreat, un lodge realizzato fondendo stile coloniale, a sua volta sintesi di culture – inglese, indiana, araba, swahili… – e soluzioni architettoniche pensate per integrare gli edifici nella natura e limitarne l’impatto ambientale. I cottage sono modellati nella roccia e arredati con mobili e oggetti da tutto il mondo in una sintesi squisita.

“Questa è l’Africa, e la più selvaggia, indisturbata e imprevedibile – si legge nelle brochure che descrivono la riserva – ogni desiderio è curato nei minimi dettagli, il Mukutan Retreat fa sentire i propri ospiti come se fossero su un mondo a parte, indimenticabile, un tempio della natura”.   

Ma quello che non tutti i visitatori sanno quando lasciano la riserva, forse già come Ernest Hemingway pervasi di nostalgia d’Africa e desiderio di ritornare, è che la Mukutan Conservancy, questo tempio della natura al quale Kuki e Sveva Gallmann hanno dedicato tutta la vita, per esistere ha bisogno di essere difesa da un esercito di ranger armati.

In Kenya, come in gran parte dell’Africa, la fauna selvatica, un patrimonio dell’umanità, è sotto costante, duplice minaccia: di essere decimata dai bracconieri, che riforniscono di zanne, corni di rinoceronte, pelli di pangolino gli insaziabili mercati asiatici, e di essere privata dell’habitat dai pastori transumanti, che invadono parchi e riserve con le loro mandrie. 

Da sempre gli africani integrano con la caccia le loro tradizionali economie di sussistenza. Ma a uccidere gli animali selvatici a milioni adesso sono i bracconieri che agiscono in bande, dotati di fuoristrada, armi sofisticate, sistemi satellitari per individuare gli animali, persino di fucili con silenziatori e costosissimi visori notturni infrarosso di terza generazione, e sono collegati alle reti internazionali del contrabbando di prodotti della fauna selvatica, un commercio illegale che può fruttare anche 23 miliardi di dollari in un anno. Al chilogrammo i corni di rinoceronte valgono più di 90.000 dollari, le zanne di elefante da 1.000 a 1.500 dollari. L’incuria, la connivenza e, troppo spesso, la complicità di funzionari, politici, militari consentono ai bracconieri di agire su vasta scala. Attratti dai profitti elevati, anche alcuni dei gruppi jihadisti che infestano il continente sono entrati nel traffico. Gli al Shabaab somali affiliati ad al Qaeda, ad esempio, ricavano dal contrabbando dell’avorio, frutto del bracconaggio in Kenya, fino al 40 per cento dei fondi con cui si finanziano. L’agenzia di informazione Maisha consulting per questo ha coniato uno slogan: “il jihad africano: prima massacra animali innocenti e poi fa strage di persone innocenti”. 

I pastori e il loro bestiame rappresentano l’altra minaccia: non solo alla fauna selvatica, ma anche ad alcuni degli ecosistemi africani più fragili e alla biodiversità, oltre che alla sicurezza delle comunità contadine con cui entrano in competizione per il controllo di terre fertili e punti d’acqua. Quello tra tribù di pastori e di agricoltori è uno conflitto plurisecolare, dalle sorti alterne. In passato spesso è stato vinto dagli agricoltori, più forti per numero e risorse. Poi qualcosa è cambiato. In tutta la fascia sub-sahariana i pastori, che appartengano alla grande famiglia etnica dei Fulani-Peul dell’Africa occidentale e centrale o alle tribù nilotiche – Samburu, Maasai, Pokot… – che popolano le savane dell’Africa orientale, hanno sostituito lancia, arco e frecce con gli AK47 e con altre armi moderne. Per i pastori africani il bestiame è anche un fondamentale simbolo di status. Per questo cercano di moltiplicare il numero di capi in loro possesso, anche oltre il limite della sostenibilità ambientale. Le armi servono a rubare capi di bestiame, attaccare e incendiare villaggi di contadini costringendo gli abitanti a trasferirsi altrove e assicurarsi nuovi e più vasti territori in cui far pascolare le mandrie. In Kenya difficilmente riescono a sconfinare nelle regioni ben coltivate dalle etnie dominanti Kikuyu e Kamba e allora entrano con le mandrie nelle riserve faunistiche. Pur sapendo il danno che infliggono al paese, in cui il turismo è una delle principali voci di bilancio, dei leader politici li istigano a farlo, gridando all’ingiustizia, per ottenere consenso politico e voti.

Kuki Lodge

Per i bracconieri la Mukutan Conservancy è una ricca concentrazione di animali selvatici a cui attingere, se solo non fosse così ben custodita da ranger armati. Per i pastori è una quantità di acqua e pascoli a portata di mano, ma inaccessibili, di cui non vedono l’ora di appropriarsi. Gli uni e gli altri vogliono liberarsi di Kuki Gallmann e della Mukutan Conservancy, disposti a tutto, anche a uccidere. 

Hanno provato più volte a minacciare Kuki per indurla ad andarsene. Nel 2017 ci sono quasi riusciti. La mattina del 23 aprile 2017 Kuki è stata vittima di un agguato. Giorni prima, decine di uomini armati avevano attaccato la sua proprietà ed erano riusciti a incendiare uno dei cottage del lodge. Solo per miracolo i proiettili non avevano colpito la figlia Sveva accorsa sentendo grida e spari. Quella mattina, accompagnata dal personale del Kenya Wildlife Service e da alcuni suoi ranger, Kuki era andata a fare un sopralluogo dei danni subiti. Prudentemente, come di consueto, stavano tornando indietro per una pista diversa da quella percorsa all’andata. Ma a un certo punto hanno trovato la strada sbarrata da un albero caduto e sono stati costretti a fermarsi. Allora tre uomini sono sbucati dalla boscaglia e hanno aperto il fuoco. Kuki è stata ripetutamente colpita all’addome. Trasportata d’urgenza all’Aga Khan Hospital di Nairobi, è stata sottoposta a un lungo e delicato intervento chirurgico. Per settimane si è temuto per la sua vita. Sono trascorsi mesi prima che potesse tornare a casa. L’attentato – non si è saputo se gli autori fossero bracconieri o pastori – l’ha spaventata, ma l’ha resa ancora più determinata a proteggere la sua riserva naturale. 

Quattro anni dopo, il 13 maggio 2021, Kuki era alla guida della sua auto quando di nuovo è stata raggiunta da colpi di arma da fuoco sparati da un gruppo di pastori entrati di nascosto nella riserva. Ferita a una gamba, sotto il ginocchio, è stata ricoverata in un ospedale della capitale e sottoposta a un intervento chirurgico. Per delle serie complicazioni sopravvenute, ha potuto lasciare l’ospedale solo dopo tre mesi e ancora una volta è tornata a casa.

“Ha la grazia di una aristocratica italiana e la volontà inarrestabile di un branco di elefanti – ha scritto di lei la produttrice cinematografica Allyn Stewart – combatte per gli animali come fossero suoi figli, tratta e media con le tribù in conflitto come se fossero la sua famiglia e si prende cura della terra come se fosse lei stessa Madre natura. Lei e sua figlia Sveva hanno fatto della conservazione della natura e della fauna selvatica la loro missione”.  

“I veri monumenti – dice Kuki – non sono più Firenze e Venezia. Tutto ciò che è fabbricato dall’uomo può essere in qualche misura rifatto. L’elefante, il rinoceronte, le foreste, le sorgenti naturali… una volta persi, sono persi per sempre”.    

Kenia evidenziata sulla mapa dell’Africa.

Lingua italiana nel mondo, analisi e prospettive

Riceviamo e pubblichiamo l’ottimo articolo del giornalista Luca Caruso.

“Qual è la condizione reale della lingua italiana nel mondo? O, per meglio dire, quale posto occupa la nostra lingua nella attuale società caratterizzata principalmente da scambi economici, commerciali, culturali, perennemente connessa e interdipendente, in una parola, globalizzata?”.

È la domanda con la quale si apre il volume “Italiano 2020: lingua nel mondo globale. Le rose che non colsi…”, realizzato per conto dell’Istituto di Studi politici San Pio V di Roma – che da cinquant’anni è impegnato nello studio della società italiana e delle dinamiche che muovono lo scenario internazionale – e pubblicato dall’Editrice Apes a cura di un comitato di specialisti ed esperti composto da Benedetto Coccia, Massimo Vedovelli, Monica Barni, Francesco De Renzo, Silvana Ferreri, Andrea Villarini.

La ricerca, nata da un’idea del linguista Tullio De Mauro, analizza la diffusione della lingua italiana nel mondo e il suo intrinseco legame con gli aspetti culturali, economici, sociali e politici. In questa prospettiva, lo studio si propone di fornire un quadro della situazione della lingua italiana nel mondo e un’analisi della sua posizione nell’attuale società globalizzata, attraverso le testimonianze di coloro che sono coinvolti direttamente sul campo. Si tratta di docenti, enti di formazione, imprenditori, direttori di istituti di cultura, associazioni culturali e professionali, che hanno permesso di svolgere un’attenta analisi e di elaborare proposte di intervento per tutti gli attori implicati nella politica linguistica e culturale italiana in prospettiva internazionale.

L’indagine ha avuto un carattere spiccatamente qualitativo: i numeri su chi studia l’italiano nel mondo sono noti e facilmente reperibili in rete. Non bastano, però, a spiegare la variegata situazione, le diverse posizioni che l’italiano assume entro il mercato globale delle lingue, le conseguenze delle dinamiche globali sui pubblici e sulle loro motivazioni al suo apprendimento.

Nei decenni recenti sono infatti intervenuti profondi cambiamenti sia nel sistema formativo italiano, sia nella dialettica fra le lingue in quanto possibili oggetti di interesse per gli stranieri. Sono emersi nuovi profili professionali legati al sistema della formazione e all’industria culturale delle lingue, nuovi sistemi di comunicazione si sono imposti nel mondo globale.

Per questo motivo, la ricerca si presenta con un approccio nuovo rispetto agli studi precedenti e si conclude con una serie di proposte operative elaborate in sette punti, per una strategia di rilancio dell’italiano nel mondo.

Come reagiscono, quindi, l’italiano e il suo sistema formativo in Italia e all’estero a tali cambiamenti?

L’indagine promossa da De Mauro ha individuato più di 150 testimoni che operano nel mondo in vari ambiti connessi con la diffusione della lingua e della cultura italiane. Gli intervistati hanno fornito un quadro che l’indagine ha cercato di ricomporre sia nei suoi aspetti positivi, sia nei punti che mostrano criticità che vanno affrontate rapidamente ed efficacemente.

Gli stranieri guardano all’italiano e al suo spazio linguistico e culturale perché è un terreno di valori, di sensi non alternativi, ma certamente complementari a quelli “di plastica” e massificati del mondo globale.

Lo spazio dei linguaggi, delle culture e delle lingue d’Italia nel mondo è un terreno dove si recuperano valori importanti: il senso del gusto e del buon gusto, della bellezza, del rapporto autentico con la natura, il senso di un modo intenso e profondo di stare insieme, le forme di una socialità che riscopre i valori umani. Lo spazio linguistico e culturale italiano è il luogo dove la lingua, le lingue sono forme culturali, porte di accesso al patrimonio di cultura intellettuale e alle forme della cultura materiale così come questa è cercata e reinterpretata attraverso le visioni del mondo contemporaneo.

L’italiano è, così, lingua di cultura, lingua di culture, lingua di autentiche e profonde relazioni sociali, ma anche strumento e forma della nostra economia e del suo made in Italy.

Immagine da un libro del 1905, per lo studio dell’italiano in America.
Wehman Bros Harry Houdini Collection (Library of Congress)

Ciò che anzitutto emerge dallo studio è l’esistenza di uno “spazio linguistico italiano globale”, un fenomeno certamente variegato e complesso, contraddistinto dalla sopravvivenza di “italiani regionali”, parlati dagli emigrati di prima generazione e inevitabilmente legati all’evoluzione delle comunità italiane, e da neoformazioni linguistiche, derivanti dall’incontro tra le lingue portate dall’Italia e le lingue del territorio ospitante.

E, in secondo luogo, la forza della cultura e della lingua come protagoniste e veicolo primario per la conoscenza e la diffusione dell’italianità nel mondo: un sistema integrato lingua-cultura-economia-società, forte di eccellenze italiane riconosciute universalmente negli ambiti più diversi: dalla filiera agroalimentare alla moda, dalla musica (due nomi su tutti: Luciano Pavarotti ed Ennio Morricone) all’automobilismo (si pensi alla Ferrari), dall’architettura allo sport alla letteratura, classica e contemporanea. Una presenza che ha quindi superato la semplice diffusione di una lingua e che vive di una propria forza propulsiva, grazie alle diverse espressioni, ovunque apprezzate, del made in Italy.

Il volume “Italiano 2020: lingua nel mondo globale. Le rose che non colsi…” è stato presentato a Roma, nella Sala Conferenze di Palazzo Theodoli Bianchelli, una delle sedi della Camera dei Deputati, lo scorso 4 maggio, in un incontro promosso dalle deputate Angela Schirò, membro della Commissione Politiche dell’Unione Europea, e Lucia Ciampi, membro della Commissione Affari costituzionali.

Quest’ultima ha spiegato il senso della ricerca, definendola “molto importante e innovativa”, notando che essa intende studiare il fenomeno linguistico in Italia e “vuole illustrare la condizione reale della lingua italiana nel mondo attraverso un’analisi non solo quantitativa ma anche qualitativa”. È infatti necessario “capire dove si parla l’italiano, chi lo insegna, chi lo studia, perché e dove”. La ricerca, pertanto, “parte dal basso” e mira a “comprendere le dinamiche della diffusione, verificando l’efficacia delle strategie e delle politiche linguistiche in uno scenario di globalizzazione in costante evoluzione”. Per farlo, “è stato necessario interrogare i protagonisti dell’italiano nel mondo: docenti, studenti, imprenditori e associazioni italiane all’estero. Un lavoro ampio grazie al quale sono state elaborate alcune proposte per il rilancio culturale della lingua italiana nel mondo”.

Angela Schirò ritiene sia “opportuno e utile ridimensionare l’enfasi dello straordinario e inaspettato successo dell’italiano all’estero, che si riassume spesso nello slogan, mai veramente documentato, della quarta lingua più studiata al mondo, indagando più a fondo il fenomeno”.

Riferendosi al Covid, Schirò ha rilevato che “molti di noi hanno la sensazione che l’arrivo della pandemia, con la didattica a distanza, abbia lasciato conseguenze sulla stessa didattica e su alcuni enti gestori di corsi di lingue meno attrezzati”. “Se a ciò  si aggiungono le difficoltà che la transizione regolamentare dal precedente (ex Legge 153, relativa a ‘Iniziative scolastiche, di assistenza scolastica e di formazione e perfezionamento professionali da attuare all’estero a favore dei lavoratori italiani e loro congiunti’) al nuovo sistema sta comportando per diversi attori attivi in questo settore, credo che si rafforzino l’esigenza e l’urgenza di ridefinire il quadro generale della nostra lingua nel mondo” ha affermato Schirò, sottolineando, tra l’altro,  come “dopo la crisi globale del 2008 si sia aperto un ampio mercato dell’insegnamento delle lingue e come questa ricerca offra una visione più complessiva di quanto sinora praticato”.

“Abbiamo bisogno di concretezza sulla situazione della nostra lingua nel mondo e sulle sue prospettive”, l’appello della deputata, che ha voluto anche sottolineare come la ripresa dei flussi di emigrazione all’estero abbia posto nuove sfide. Al giorno d’oggi, infatti, “non c’è più l’idea di tornare in Italia per i figli degli emigrati. Ma è l’opzione multilinguistica a essere consapevolmente perseguita. Quindi sono tanti gli interrogativi ai quali dobbiamo rispondere, sia per l’emigrazione che riguardo all’immigrazione e ai figli di chi entra nel nostro Paese”.

Monica Barni, dell’Università per stranieri di Siena, ha notato come questa sia “una ricerca che nasce dall’ascolto”, una capacità cara al professor Tullio De Mauro, cui si deve la volontà di questo lavoro. “Attraverso l’ascolto dei professionisti della lingua nel mondo, in questa ricerca abbiamo portato suggerimenti che arrivano da chi è in trincea nell’insegnamento dell’italiano”.

Paolo De Nardis, presidente dell’Istituto di Studi politici San Pio V, ha messo in rilievo l’importanza di impostare un “discorso sistemico, poiché è un argomento che passa dalla cultura, all’economia e alla politica. La lingua è un processo identitario e può anche esser conflittuale”. “La ricerca empirica sugli operatori – ha aggiunto – è importante perché c’è un’unione tra il momento linguistico e quello economico, sociale e politico. E pone le basi per un discorso che noi vogliamo sviluppare, perché arricchisce noi stessi e può contrassegnare la vita del nostro Istituto”.

Massimo Vedovelli, dell’Università per stranieri di Siena, è entrato nello specifico del progetto, che si differenzia dai lavori di ricerca realizzati in passato, in cui si puntava principalmente su un approccio quantitativo. Ne emergevano dati che “vedevano la nostra lingua stare in buona salute in termini di nuovi corsi e nuovi studenti, con il 24 per cento degli allievi che dichiarava di avere interesse nella lingua per motivi di lavoro. Ma poi si è registrato un rallentamento di nuovi iscritti durante la crisi del 2008-2010. Una crisi non solo dell’italiano, ma anche delle altre lingue. Però, dopo qualche anno, le altre lingue sono tornate a crescere, mentre l’italiano no. Avevamo tanti dati quantitativi, ma dovevamo capire il modello. E dunque è partita un’analisi qualitativa, andando a parlare con i professionisti. Abbiamo realizzato interviste a 153 testimoni privilegiati: insegnati, stranieri, intellettuali e imprenditori”, ha spiegato.

E alla fine la ricerca getta un piccolo allarme sulla questione futuro: c’è infatti un “grande patrimonio di proprietà intellettuale che rischia di non avere presa nel domani. Una situazione molto fluttuante e molto diversificata. Una situazione di incapacità di fare sistema”. Secondo Vedovelli, è necessario “mettere mano al quadro normativo. Per anni c’è stata una sola legge, è ora di fare di più, c’è necessità di uno sforzo, dobbiamo tenere i piedi in tante staffe, senza fermarsi a una visione retorica dell’italianità”. L’italianità, infatti, anche dal punto di vista linguistico, “richiede strumenti, che significano investimenti di sistema. E bisogna utilizzare anche gli strumenti nuovi. Siamo in un forte ritardo rispetto alle altre lingue”. Per questo, in vista di una “ripartenza del Paese occorrerebbe ragionare non tanto in termini di ripresa dell’export dei prodotti italiani, quanto in termini di internazionalizzazione dell’intero Sistema Italia, partendo proprio dall’insegnamento della lingua italiana, all’estero come in Italia”, ha proposto Vedovelli.

È quindi intervenuto Alessandro De Pedys, vicedirettore generale per la Diplomazia pubblica e culturale e direttore centrale per la promozione della cultura e della lingua italiana del Ministero degli Affari esteri e della Cooperazione internazionale. “Noi sappiamo che la lingua è l’essenza del nostro patrimonio culturale, ma è anche un veicolo”, ha osservato. Nonostante “i problemi”, “l’italiano continua a rappresentare un polo di interesse per diverse ragioni. Si parla spesso di Italia come superpotenza culturale, e non c’è dubbio che nel mondo l’italiano è conosciuto attraverso la cultura. Sulla base dei nostri dati, sono circa 2 milioni gli studenti italiani. La Farnesina contribuisce con circa 430mila studenti tra Istituti italiani di Cultura nel mondo, scuole statali e paritarie e corsi degli enti gestori. Sono numeri importanti, che vanno consolidati e incrementati. ‘Italiano2020’, oltre a fornire dati su chi, dove, per quanto tempo, studia l’italiano, sottolinea la grande diversità in cui operiamo. Per questo noi vogliamo lavorare facendo sistema, facendo rete. Stiamo lavorando tenendo conto delle diverse realtà in cui operiamo. L’idea – ha concluso De Pedys – è di muoversi su diversi binari. Attraverso un impegno condiviso possiamo fare dell’italiano una lingua globale”.

Alessandro Masi, segretario generale della Società Dante Alighieri, ha fatto riferimento al “mercato globale delle lingue”. E la lingua italiana, a suo parere, deve essere intesa “in termini economici”. Occorre però “essere in grado di rinnovare l’offerta, anche in modo digitale, decuplicata durante la pandemia. Dobbiamo credere di più a un’Italia globale attraverso la sua lingua”.

È infine intervenuto Michele Schiavone, segretario generale del Consiglio generale degli eletti all’estero. “La lingua è lo strumento identitario dell’Italia, parte fondamentale dei quasi 6 milioni di iscritti Aire, dei circa 80 milioni di italo-discendenti e dei circa 250 milioni di italici. L’italiano è il collante tra le comunità e l’Italia. Ma ha ancora tante potenzialità inespresse. Noi italiani all’estero siamo interpreti attivi di quel soft power di cui parla la ricerca. Dispiace che in questo tipo di lavori sia spesso dimenticato quanto di buono è stato fatto in questi anni con la Legge 153, che ha formato una grande comunità. L’idea di grandezza del nostro Paese, se non è accompagna da una proposta culturale che continui a tenere legati gli italici all’Italia, rischia di diventare una scommessa perdente. Per cui, anche nel mercato delle lingue è opportuno investire, sottolineando la necessità di fare sistema. E per questo sarebbe utile creare un ministero per gli italiani nel mondo”.

Luca Caruso